Si è svolta solo pochi giorni fa l’ennesima festa dei lavoratori e – come ogni anno – è stato fatto un bilancio di quelle che sono le condizioni lavorative nel nostro Belpaese. Fra disparità salariali e divario occupazionale tra Nord e Sud, fra disparità salariali e di genere tra uomini e donne, fra un lieve aumento del tasso di occupazione – ma (ahinoi) anche un lieve aumento degli infortuni sul lavoro – un dato è emerso sopra a tutti: secondo i dati dell’Eurostat sono circa 2 milioni i lavoratori italiani che trascorrono quasi 50 ore a settimana a lavoro, superando la media europea.
Sfatando, quindi, il mito di un’Italia fannullona i cui cittadini amano oziare e lavorare poco, emerge però un ulteriore dato: gli italiani lavorano di più perché producono meno e a farne le spese sono soprattutto i lavoratori autonomi, sempre più vittime del workholism: la dipendenza dal lavoro.
Ma perché lavoriamo tanto, ma produciamo poco? I dati forniti dall’Istituto Superiore della Sanità hanno stimato che in Italia il deficit di sonno causato dal troppo lavoro fa perdere alle aziende fino a 5 miliardi di euro l’anno, circa lo 0,05% del Pil. Uno studio del 2014, ha poi dimostrato come la produttività dei dipendenti diminuisce rapidamente dopo una settimana lavorativa di 50 ore e crolla, invece, rapidamente dopo le 55 ore di lavoro. Per non parlare del fatto che un altro studio condotto della Boston University ha evidenziato come i manager non sono nemmeno capaci di distinguere chi fra i propri dipendenti lavora effettivamente più di 50 ore a settimana e chi, invece, finge di farlo.
Insomma, da questi dati, si evince che lavorare tanto non è sinonimo di maggiore produttività, né spesso ripaga. Anzi, è proprio l’eccessivo lavoro ad inficiare sulla salute e sulla produttività dell’individuo.
Il troppo lavoro fa male all’umore ed al fisico, lo dimostra anche la scienza. Una ricerca effettuata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità ha evidenziato che lavorare 55 ore o più a settimana aumenta del 35% il rischio di un ictus e del 17% il rischio connesso a una morte per malattie cardiache. Lo stesso è confermato anche dalla Fondazione Veronesiche, riportando i dati di un articolo apparso sul European Journal of Preventive Cardiology, sottolinea come la somma tra condizioni lavorative moto stressanti e riduzione della qualità del riposo siano fattori determinanti che possano aggravare l’ipertensione. Mentre, i risultati di una ricerca condotta dai ricercatori dalle Università di Trento e di Bologna ed intitolata Uncovering the Main and Interacting Impact of Workaholism on Momentary Hedonic Tone at Work:An Experience Sampling Approach, ha verificato che lavorare continuamente, coprire turni su turni, provoca inizialmente un forte stress, con conseguente abbassamento dell’umore ed alla lunga può portare ripercussioni sulla salute, sul benessere psicologico e sulle relazioni con familiari ed amici. Il pensare solo al lavoro, non avere tempo per svagarsi, per l’attività fisica o per gli affetti ha, infatti, un grande impatto sulla produzione degli ormoni dello stress che generano un malessere tale sul nostro cervello che poi può degenerare in depressione, malattie croniche, ma anche abitudini malsane come l’abuso di alcol, problemi alimentari, uso di droghe e problemi del sonno.
L’ideale sarebbe dunque un work life balance, cioè un sano equilibrio fra ore lavorative, vita privata, svago ed ore di riposo.
Quest’ultimo, soprattutto, è di vitale importanza. Eccone i suoi principali benefici: un giusto equilibrio fra sonno e veglia, un funzionamento migliore della circolazione sanguigna, meno produzione di cortisolo, maggiore lucidità mentale, maggiore capacità di ricordare, eliminazione di sostanze tossiche e tossine, ma soprattutto un migliore umore. Si, perché riposare bene, aiuta anche e soprattutto a vivere bene e a combattere la stanchezza mentale che il troppo lavoro lascia dietro sé.
Per far questo e per evitare l’effetto burnout (stress cronico da lavoro correlato da una sensazione di completo esaurimento fisico e psichico), sarebbe anche necessario coltivare gli affetti, fare esercizio fisico, dedicarsi ad un hobby, concedersi un piccolo viaggio ed avere un maggior contatto con la natura. Insomma lavorare per vivere e perché piace, ma anche avere una vita al di fuori del lavoro e vivere.
Ma quanto dovrebbero essere le giuste ore di lavoro per poter fare tutto ciò? Sino ad ora era valsa la regola 8 ore di lavoro, 8 di svago e 8 di riposo. Ma è ancora giusto così?
Una psicologa, un’esperta di produttività ed una giornalista ed una datrice di lavoro hanno provato a rispondere a ciò in un’interessante intervista a vanity fair.
Sarah Jaffe, giornalista e autrice del libro Work Won’t Love You Back: How Devotion to Our Jobs Keeps Us Exploited, Exhausted, and Alone afferma: «La lunghezza della giornata lavorativa non è basata sulla scienza, ma sulla lotta. Non riflette quanto a lungo un essere umano possa lavorare, o quante ore di lavoro occorrano per mandare avanti l’economia. Riflette solo l’esito di una lotta condotta dagli operai delle fabbriche nell’800 che prima lavoravano 14 ore, poi hanno scioperato e lottato fino a ridurle a 8. Ora abbiamo strumenti che permettono a quasi ogni tipo di produzione in ogni industria di essere più efficiente di quanto non fosse allora. Inoltre, due secoli fa la maggior parte delle donne erano casalinghe. Non credo che troveremo mai un numero preciso di ore in cui lavorare. Sarà sempre il risultato di pressioni contrastanti fra i lavoratori ed i loro superiori con interessi diversi: i datori di lavoro vogliono che il lavoratore lavori più a lungo possibile per essere più produttivi possibile. Il lavoratore, invece, lavora per vivere e vuole avere una vita. La giornata lavorativa di otto ore è stata un compromesso raggiunto in anni e anni di lotta. La questione, alla fine, sarà risolta non dalla scienza ma dai confronti tra i lavoratori e i loro superiori».
Concorda anche Malissa Clark, Ph.D., professoressa associata di psicologia industriale-organizzativa all’Università della Georgia che studia il benessere degli impiegati, che sostiene: «Per gli esseri umani, concentrarsi sul lavoro ininterrottamente per otto ore è impossibile. Quest’idea di lavorare per essere i migliori, per elevarsi al di sopra degli altri, la trovo orribile. Conduce inevitabilmente al burnout. La settimana lavorativa di 40 ore è stata programmata quando ancora c’era il modello di famiglia in cui solo l’uomo lavorava e la donna era casalinga. Se vi è capitato di fare i salti mortali per lavorare 40 ore a settimana, preparare i pasti, pulire, fare commissioni e prendervi cura di vostro figlio, questo è il motivo. 40 ore di lavoro sono un’aspettativa ragionevole per chi ha qualcuno che si occupa a tempo pieno della casa. Se ascoltassimo i ricercatori che hanno esaminato la questione, se attingessimo effettivamente dagli studi sul riposo e sul recupero, non vedo alcuna ragione per cui dovremmo attenerci a questo schema delle 8 ore. Dobbiamo chiederci: per quanto tempo possiamo lavorare a un compito restando totalmente concentrati su di esso? La risposta è mezz’ora, o 45 minuti. Allora implementiamo delle attività di pausa tra questi periodi di concentrazione intensi della giornata lavorativa. Ci sono innumerevoli ricerche sull’efficacia delle pause durante il lavoro. Se facessimo così, potremmo essere parimenti efficaci nella metà del tempo».
Melissa Nightingale, cofondatrice del Raw Signal Group e co-autrice di Unmanageable: Leadership Lessons From an Impossible Year, rincara la dose: «Ci sono rendimenti decrescenti quando si arriva a un tot numero di ore più allunghi le ore di lavoro, più la qualità scende. Molte persone, poi sono davvero esaurite, e in parte lo sono perché si impegnano a fare un lavoro che non è fisicamente possibile nel numero di ore del giorno che hanno a disposizione. È insostenibile. Ci sono ripercussioni fisiche. È lo strumento a cui la gente ricorre quando ha l’acqua alla gola: “Se ci lavoro tutta la notte mi rimetto in pari!” invece, spesso, ciò che succede è che il lavoro fatto durante la notte intera è un lavoro da rifare il giorno dopo. Una delle cose che mi entusiasma di più in questo momento sono le rinegoziazioni tra datori di lavoro e dipendenti. Com’è lavorare in un’azienda impostata in modo che i lavoratori possano prosperare?»
Ma allora, se sappiamo che le persone non possono mantenere la concentrazione così a lungo a lavoro e che hanno bisogno di svago e riposo, perché insistere per lavorare otto ore al giorno? Ma soprattutto perché non provare ad aumentare i giorni di riposo o le pause durante il lavoro ?
In una società come la nostra sempre più frenetica, nasce l’esigenza di ambienti e modalità di lavoro sempre più flessibili. Oltre allo smart working – lì dove è possibile e sempre mantenendo un sano numero di ore lavorative – un’altra soluzione potrebbe essere quella di optare per la settimana corta lavorativa. Già sperimentata – grazie a progetti sperimentali delle risorse unite – in paesi quali Islanda, Giappone, Nuova Zelanda e Spagna, la settimana di 4 giorni lavorativi, ha da subito avuto risultati sorprendenti: meno giorni di malattia presi, maggiore salute mentale dei lavoratori, migliori condizioni di salute in generale, maggiore produttività, maggiore motivazione lavorativa, minori livelli di inquinamento, ma soprattutto maggior felicità nello svolgere il proprio lavoro grazie ad un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata.
Ovviamente, anch’ essa avrà i suoi limiti, ma sicuramente minori dei su vantaggi! Qui In Italia saremmo pronti per sperimentare questa rivoluzione? Speriamo di scoprirlo presto! Nel frattempo, come diceva Publio Ovidio Nasone nella sua Ars Amatoria: “Riposati! Un campo che ha riposato produce un raccolto abbondante!”