In the still of the night


Se suoni jazz, fusion o se hai mai avuto il piacere di passare da una dominante secondaria a un’altra usando un trillo rubato con un’enclosure che scivola su una scala simmetrica, per appoggiare su un terzo grado come punto d’appoggio per un arpeggio diminuito, allora devi essere grato a Charlie Parker e al bebop. Se sei mai entrato sbadatamente in un jazz club e hai distrattamente ascoltato Blues For Alice pensando di poterti fermare a sedere, devi essere grato a Parker. Se cogli lo struggimento del lirismo solitario portato agli eccessi o il fascino della decadenza sublime che fa perno sugli eccessi “per dimenticare e allo stesso tempo raggiungere vette altissime”, allora hai qualcosa in comune con lui. Ho però la sensazione che il suo nome non sia abbastanza apprezzato tra le nuove generazioni di musicisti. Eppure quei licks appartengono a lui e a quell’epoca.

 Un’epoca tumultuosa, fatta di discriminazioni razziali, di eccessi, abissi profondi ma allo stesso tempo, vette eccelse. In fondo la vita di Parker non si discosta molto dalle armonie spiazzanti sulle quali suonava, così come dai tempi della sua musica. Saltava agilmente su uno swing esasperato con armonie accorate (ah, il fascino del tritono delle dominanti!) così veloci da far perdere il fiato. Trame sonore così frenetiche da non essere ballabili dai bianchi

Eppure dietro quell’adrenalina, quell’eccitazione, quell’ardore quello “spezzare” le linee c’è un dolore indicibile. Quel dolore un po’ marcio che ci fa innamorare, quella sensazione di sofferenza mista a piacere che morbosamente ci avvince. C’è quella bellezza indescrivibile accentuata dalla fragilità che recita ad libitum “non c’è bellezza senza sofferenza”. E, aggiungerei, “se c’è, allora è di poco spessore”. Non me ne vogliate…

Già nell’onomatopea bebop c’è un universo autoconclusivo: una narrazione funesta, la caducità della vita e la sua imprevedibilità, che riesce però ad essere al contempo leggera e tragica. Qualcuno ha pensato “anche un po’ blues”? Corretto.

 Se dovessi descrivere la musica di Parker con un’immagine, direi che è “un sorriso a 32 denti mentre dovresti piangere quando tutti intorno ti acclamano mentre intimamente ti reputano inferiore e ti disprezzano”. La sua musica non è una rivendicazione sociale o razziale, o tantomeno una vendetta culturale o del becero menefreghismo: è la bellezza degli ossimori a cavallo tra decadenza e magnificenza. E nonostante la sua lingua, il suo bebop, oggi sia tra le note di tutti, continuo a credere che non stia ancora ricevendo la giusta gratitudine e profondità di lettura.

Parker a questo era abituato: dai disaccordi tra musicisti o le Majors, ai contrasti tra la sua vita da artista e di cittadino nero, i “cambi” della sua vita si accompagnavano poi alle rovinose dipendenze che cercavano di erodere il suo immenso talento ed impegno. Se l’hai mai studiato o trascritto come ho fatto io sai per certo come durante i cambi armonici quelle linee melodiche, suonate però lentamente, suonavano tristi, struggenti. La fotografia di un uomo in preda alla più profonda nichilistica autodistruzione che sopravviveva vivendo alla velocità del suono. Un individuo che oscillava a cavallo tra indifferenza e maltrattamenti (non credo riuscirò mai a perdonare Jo Jones e la squadra narcotici di NY) e acclamazione, idolatria perfino. Vi risparmio references e note bibliografiche: wikipedia e le sue innumerevoli biografie oggi sono alla portata di tutti. 

Vorrei infine discostarmi dal solito: “siate tutti più buoni con gli altri…in fondo è Natale… siate solidali, siate fratelli gli uni con gli altri” e concentrarmi più sul riflettere sulle occasioni mancate in cui avremmo potuto mostrare solidarietà, amicizia o, più semplicemente, empatia. E con questo sentimento di “mancata occasione di fare del bene” che voglio chiudere questi pensieri. Perché alle volte basta fermarsi a pensare un attimo per riflettere e maturare un’idea che diventa azione. Io comincio intanto ringraziando Charlie Parker.

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