Nessuno può ormai negare come la criminalità organizzata sia un fenomeno diffuso a livello globale. Molti ancora ritengono che alle origini di una gestione gerarchica delle organizzazioni di stampo criminale vi sia la mafia italiana. Pochi conoscono però il suo antenato: il brigantaggio.
Breve storia dell’Unità d’Italia
L’Italia dopo il Congresso di Vienna del 1815, con il quale venne restaurato lo status quo precedente l’era napoleonica, non era un Paese davvero unito: il territorio della penisola era diviso in diverse entità, tra cui un posto di rilievo era occupato dal Regno di Sardegna, governato dalla dinastia dei Savoia, e dal Regno delle due Sicilie, su cui esercitavano il proprio potere i Borbone, una nobile stirpe di origine spagnola. In mezzo vi era lo Stato della Chiesa, che controllava ampi territori nel centro Italia, e una serie di Granducati (tra cui quelli toscani e quelli romagnoli erano i principali).
Il raggiungimento dell’Unità del Paese sembrava dunque quasi un’utopia, e i primi moti rivoluzionari, che ebbero luogo nel 1820-21, furono in larga parte influenzati dal contesto europeo. Fu però quello l’inizio di una graduale presa di coscienza rispetto alla necessità di diventare un vero e proprio Stato, raggiungendo l’unità nazionale, cui si unì la lotta per veder garantiti ai cittadini dello Stato diritti costituzionali di stampo liberale, sul modello di altri Stati europei. Vi erano, tuttavia, diversi modi di concepire quale fosse la via migliore per raggiungere quest’obiettivo. Tre erano le vie ritenute percorribili dai fautori dell’indipendenza italiana: Carlo Cattaneo riteneva che l’unica forma di Stato possibile fosse quella repubblicano-federalista; Cesare Balbo e Vincenzo Gioberti sostenevano che l’Unità del Paese dovesse essere raggiunta sotto l’egida papale (corrente, questa, definita neoguelfa in memoria dell’antichissima divisione tra guelfi e ghibellini di dantesca memoria); Giuseppe Mazzini era un convinto fautore di un’unità italiana veramente democratica.
I moti del 1848-49 per primi cementificarono lo spirito patriottico italiano e convinsero soprattutto gli intellettuali della necessità di unire il Paese ponendo a guida del processo di unificazione il Regno di Sardegna. La figura che meglio si prestava a svolgere tale compito era Camillo Benso conte di Cavour, ministro dell’Agricoltura del governo sabaudo che nel 1852 venne nominato primo ministro. Egli per primo comprese che, per riuscire nell’obiettivo, non bastava solo unire le forze a livello interno: era necessario garantirsi l’appoggio, se non concreto, almeno morale, delle grandi potenze europee, in particolar modo della Francia e dell’Inghilterra. Per ottenere la possibilità di discutere apertamente della cosiddetta questione italiana, Cavour decise di impegnare battaglioni dell’esercito sabaudo per partecipare alla guerra di Crimea del 1853-56; durante la conferenza della pace al termine di quest’ultimo, il Primo ministro riuscì a portare all’attenzione dei grandi l’esistenza di un “problema italiano”, che venne effettivamente riconosciuto come tale senza che però venisse presa una vera e propria posizione in merito.
La tattica cavouriana ebbe tuttavia presto dei riscontri positivi: Napoleone III, il nipote di Bonaparte autoproclamatosi imperatore di Francia la notte di Natale del 1852, decise di supportare la causa italiana aiutandoli nella lotta contro gli occupanti austriaci. Se sul momento l’imperatore francese mantenne le sue promesse, appena gli si presentò l’occasione non mancò di portare avanti gli interessi francesi stringendo con il governo austro-ungarico una tregua, gli accordi di Plombières del 1859.
L’impegno verso il raggiungimento della riunificazione della penisola non era tuttavia sopito: fu Giuseppe Garibaldi, uno dei membri più influenti delle sette segrete nate a supporto dell’unità italiana, a prendere l’iniziativa, segretamente supportato e finanziato dal Regno di Savoia. Con i suoi Mille, dopo essere sbarcato in Sicilia, in breve tempo riuscì a conquistare gran parte della penisola italiana, che venne consegnata nelle mani del sovrano del Regno di Sardegna, Vittorio Emanuele. Quest’ultimo, dopo la proclamazione del Regno d’Italia, ne divenne infatti, appunto, il re.
Il Mezzogiorno d’Italia: una storia di sottosviluppo e criminalità?
Fatta l’Italia, bisogna fare gli Italiani, pare abbia detto Cavour, che a stento riuscì a vedere l’Italia unita (morì infatti poco dopo). Non esisteva, infatti, una vera e propria coscienza di appartenere ad un unico popolo, in ragione del fatto che fino ad allora gli abitanti della penisola erano vissuti in contesti totalmente diversi l’uno dall’altro. In particolare, le regioni meridionali del Paese, intrappolate in una dimensione di arretratezza e malessere, soprattutto le popolazioni contadine estremamente povere, rimasero ai margini della società. Il nuovo regime amministrativo, connotato da un duro fiscalismo che riversò parte del debito dell’antico regno sardo sui ceti meno abbienti, contribuì a peggiorare la situazione, favorendo la diffusione del brigantaggio. In sé il fenomeno non era affatto nuovo; assunse però delle caratteristiche del tutto peculiari nell’ambito del neonato Regno d’Italia, con specifico riferimento, appunto, al Mezzogiorno d’Italia.
A favorirne la diffusione, inoltre, contribuì anche lo scarso grado di controllo che le autorità statali riuscivano ad esercitare in quelle zone del Paese. In ragione di ciò, le bande di briganti finirono per sostituirsi al governo dello Stato, fornendo tutela e supporto ai latifondisti ancora profondamente radicati nel Sud Italia.
Il governo del neonato stato italiano, preoccupato dalla diffusione del fenomeno, altro non poté se non reagire duramente: già nel 1863, con la legge Pica, venne dichiarato lo stato d’emergenza nel Mezzogiorno e l’esercito venne mandato a compiere una spedizione punitiva, con l’obiettivo di debellare il brigantaggio. Se tuttavia nel giro di due anni si pensava di aver emarginato il fenomeno, è a tutti ormai piuttosto evidente come non fu esattamente così. Con gradi e modi differenti, il brigantaggio arrivò ad assumere forme di organizzazione sempre più strutturate, fino a giungere alle tristemente note forme di criminalità organizzata, di cui forse la più conosciuta è la mafia.
Che futuro per la criminalità organizzata?
Nel giorno del trentesimo anniversario della morte del giudice Paolo Borsellino, che per anni, insieme ai colleghi del pool antimafia, si batté per contrastare l’operato delle potenti famiglie mafiose siciliane, un ritorno alle origini per meglio comprendere le motivazioni alla base della diffusione della criminalità organizzata nel Paese è quasi un obbligo. Se oggi la mafia ha assunto un atteggiamento di più basso profilo, mettendo da parte le tristemente spettacolari stragi, la sua capacità di insinuarsi nei più reconditi meandri della società non è mutata, ma anzi, forse, aumentata. Parlare di tutto questo, se non aiuta ad evitare che ciò accada, può tuttavia contribuire a forgiare la coscienza civile. Perché tutto questo, un giorno, forse lontano, non accada più.
Fonti consultate
R. Albrecht-Carrié, “Storia diplomatica d’Europa. 1815-1968”, Editori Laterza, Roma-Bari, 1978
F. Cammarano, G. Guazzaloca, M. S. Piretti, “Storia contemporanea. Dal XIX al XXI secolo”, Mondadori, Milano, 2009
https://www.siecon.org/sites/siecon.org/files/oldfiles/uploads/2011/04/DelMonte-Pennacchio1.pdf ultimo accesso 20 luglio 2022