Se a quindici anni la professoressa di lettere non mi avesse riempito il comodino dei vari Flaubert e Dostoevskij, e mi avesse piazzato lì un solo libro da leggere ripetutamente per i cinque anni a venire in ascetico esercizio spirituale, forse la mia giovinezza sarebbe stata migliore. Certo, poi gli scrittoroni meravigliosi li avrei comunque letti e amati, ma l’Arte della gioia, di Goliarda Sapienza, per quegli anni sarebbe bastato e avanzato. Invece di immedesimarmi in giovani che ammazzano vecchie e poi trovano l’amore, in mariti che amano ciecamente mogli represse e quindi pazze, avrei vissuto nel corpo e nella mente di una donna che ha fatto del suo essere donna, del suo essere persona, un continuo esperimento, aderente a un unico comandamento: rendere la vita un santuario di libertà, per sé e per gli altri. Avrei imparato a disobbedire ai ruoli, a frantumarli sotto i colpi decisi delle mie scelte, a costringere gli altri a riposizionarsi continuamente di fronte alla mia voglia di vita. Avrei soprattutto imparato cos’è il desiderio, cos’è il piacere, in quanti diversissimi modi si può godere, e che tutti, o quasi, vanno bene. Invece l’Arte della gioia mi è arrivato come arriva a tutte, un consiglio bisbigliato, passato da donna a donna come un assorbente di nascosto, di solito tra i venticinque e i trentacinque anni: Ma l’hai letto l’Arte della gioia? Lo devi leggere. Certi pezzi saltali, non fa niente. Ma arriva in fondo, finiscilo!
Il libro è pieno di orgasmi. Inizia con un orgasmo e finisce con un orgasmo. Ci sono orgasmi di uomini, disabili, bambini, anziani, ma soprattutto di donne. È un libro pieno di sesso perché in Sapienza il sesso è un territorio ricco, misterioso e pienamente intrecciato alla vita, indissolubile. Non è mai un sesso furbo, un piacere messo lì per stuzzicare il lettore e agganciarlo meschinamente: sono orgasmi ancorati al desiderio che li ha generati, desiderio che Sapienza esplora in tutta la sua vastità, senza semplificazioni, tributandogli una vera e propria professione di fede che fa pronunciare a Modesta, la protagonista del libro. La situazione è questa: Modesta ascolta la confessione di una donna, Stella, che è rimasta incinta del ragazzo che ha accudito da quando era bambino, Prando. La reazione di Modesta non è scontata, dato che Prando è suo figlio. Eccola:
La logica della vita m’apparve con tanta chiarezza che mi sentii dire: – Le vie del desiderio sono infinite.
Modesta non può condannare Stella perché fonda la logica della vita sul desiderio, desiderio che è indefinibile e sorprendente, che ha infinite ragioni e che per questo si sostituisce a Dio, come motore e fine della vita.
Che il piacere sia qualcosa di misterioso e indissolubile dalla realtà, Modesta lo capisce da piccolissima. La prima pagina racconta un orgasmo che ha già tutte le caratteristiche per destabilizzare il lettore: è un orgasmo infantile che cresce sulle grida di disperazione di una creatura brutta e disprezzata: la sorella disabile.
Per anni l’avevo sentita urlare così, senza badarci, sino al giorno che […] avvertii a sentirla gridare come una dolcezza in tutto il corpo. Dolcezza che in seguito si tramutò in brividi di piacere, tanto che piano piano, tutti i giorni cominciai a sperare che mia madre uscisse per poter ascoltare, l’orecchio alla porta dello stanzino, e godere di quegli urli.
Quando accadeva, chiudevo gli occhi e immaginavo che si lacerasse la carne, si ferisse. E fu così che seguendo le mie mani spinte dagli urli scoprii, toccandomi là dove esce la pipì, che si provava un godimento più grande che a mangiare il pane fresco, la frutta.
La gioia va condivisa e Modesta corre a raccontare a Tuzzu, un ragazzino poco più grande di lei, del piacere che si prova a toccarsi lì sotto. Tuzzu le farà scoprire qualcos’altro:
Dietro la mia schiena si era sicuramente spalancato un precipizio che mi dava le vertigini, ma quei brividi mi tenevano sospesa nel vuoto. […] Poi le carezze si fecero così fonde che…come faceva? Lo guardai. Mi aveva aperto le gambe e il suo viso affondava tra le mie cosce; mi accarezzava con la lingua.
Dopo quel regalo gioioso di Tuzzu, il dolore ritorna matrice del piacere: ancora bambina Modesta ha un orgasmo stretta tra le braccia di una suora che le racconta lo storia di Sant’Agata e dei suoi seni mozzati:
Fra le braccia poggiavo la testa sul suo seno che sentivo colmo e caldo sotto il panno bianco. […] E mentre le tenaglie infuocate laceravano il panno bianco e strappavano la carne tenera del suo seno il brivido di piacere dentro di me cominciava. E se lei, sentendo che continuavo a tremare per paura che cadessi mi stringeva ancora di più a sé, il brivido si faceva così forte e lungo che dovevo serrare i denti per non gridare.
Una notte Modesta scoprirà che quella suora non è poi così pura:
Prima avevo creduto che madre Leonora non si accarezzasse perché era pura, santa […], ma adesso sapevo che anche lei di notte si accarezzava esattamente come facevo io. L’avevo capito quella notte che con la scusa del temporale mi aveva portata a dormire nel suo letto. E dopo, convinta che io dormissi, aveva cominciato ad accarezzarsi e a gemere. Altro che santa, una vigliacca era!
Sapienza non ha paura di esplorare il desiderio anche quando le situazioni sono al limite: una donna adulta che si masturba di fianco a una bambina oggi sarebbe classificata, a ragione, come violenza o abuso. Ma in questo caso la bambina, ormai quasi ragazza, prova desiderio verso la suora:
quelle mani non mi davano più nessun brivido. Erano molli e non osavano mai niente. Tante volte avevo sperato, ma quella più di qualche carezza timida non faceva.
Il desiderio per Modesta non è mai una superficie liscia e trasparente dentro la quale, una volta issato il recinto dei limiti e delle intenzioni, può accadere solo il bene, dove si può stare senza preoccupazioni. Modesta conosce quella zona grigia in cui le relazioni si strutturano intorno ai desideri in modo ambiguo. Non che Modesta non sappia riconoscere la violenza: da piccola è stuprata da suo padre (Sapienza non fa sconti sulla brutalità della scena) e ogni volta che si troverà in una relazione abusante saprà riconoscerla e allontanarsi.
Il primo amore e le prime esperienze sessuali pienamente positive, non mosse da dolore o odio, le ha con una coetanea adolescente, Beatrice. Giocano ad allattarsi e si concedono tutto perché tanto siamo femmine tutte e due. Non si resta incinte. Dice Modesta:
Che importava degli uomini ora che avevo lei? Là dove dovevo tornare [in convento] avrei avuto solo quell’amore solitario che ora sapevo come si chiamava: masturbazione. Che cosa triste, da monaca pensai, e mi venne da ridere.
Modesta è di una modernità imbarazzante: ama le donne e gli uomini allo stesso modo, ha relazioni aperte, non conosce la gelosia, o anzi la conosce ma riesce a comprenderne la natura antilibertaria, smascherandola la disarma e scopre quali frutti dà invece un atteggiamento generoso. Eccola che racconta come si sente a sapere che Nina, un’anarchica romana conosciuta in galera con cui ha una relazione, ha rapporti con altri:
A ogni sua confessione lo stupore di non essere gelosa mi fa correre fra le sue braccia riconoscente. Come può essere? Quello che capisco […] è che la gelosia è fomentata sempre da chi se ne vuole servire per vizio di crudeltà inutile e mortale. Anche perché dopo la confessione le sue braccia mi stringono con nuovo calore.
La generosità che le due donne si regalano, Modesta l’aveva già incontrata da ragazza, con il suo primo uomo, Carmine. Con pazienza Carmine le insegna a godere con la penetrazione, e quando le fa capire che sa della relazione tra lei e Beatrice, di cui non è geloso, la invita a insegnarle quanto con lui ha imparato:
Quello che imparavo da Carmine cercavo di comunicarlo a Beatrice. Le mie carezze si fecero più caute e più penetranti. Certo non ero un uomo, ma con la mano le entravo dentro più profondamente e lei più profondamente veniva. E poi, come Carmine diceva, la preparavo a quando avrebbe incontrato l’uomo giusto.
Oltre al piacere penetrativo, Carmine le insegna che l’amore, il sesso, l’affetto non sono torte che si dividono solo per due e che a volte offrire una fetta a qualcuno può dare più gusto a tutti. Per Carmine Modesta proverà un amore e un’attrazione fortissimi. Sapienza racconta un rapporto orale tra loro che per me è un pezzo di letteratura stupendo e liberatorio:
Con la mano cauta come un tempo guida le mie carezze. Mai l’avevo baciato così, e una tenerezza nuova scaccia il gelo di prima. E ora che la sua vita in onde sale fra la mia lingua e il palato, non lo posso lasciare e vengo con lui succhiando quel seme sconosciuto che dal profondo del suo essere viene a dissetare la bocca bruciata dall’arsura. Sapore aspro e dolce, resina d’albero, o quagliato latte d’uomo nato anche lui per allattare.
Non è semplice raccontare un pompino con ingoio e restare dentro la letteratura. Modesta non si sottrae agli orgasmi, Sapienza non si sottrae al raccontarli. La gioia del piacere e la gioia della vita sono indissolubili, tanto che Modesta, durante un rapporto, pensa che la morte forse non sarà che un orgasmo pieno come questo.
Ma ci sono situazioni in cui il desiderio non riesce a crescere e gli orgasmi, se arrivano, sanno di disperazione. A modesta accadrà due volte, con un uomo e con una donna, entrambi intellettuali. Carlo, un giovane medico comunista, crede che l’amore sia qualcosa di sacro e miracoloso. La vitalità di modesta, il suo anticonformismo, lo disturbano:
– Diventi volgare modesta.
– Per te tutto quello che è vero è volgare.
Modesta non rinuncia alla verità, Carlo ne è spaventato: la verità del piacere lo turba, per questo, dopo ogni orgasmo, si lava. Modesta con lui scoprirà la frustrazione di non riuscire a godere, perché i corpi non si accordano. L’altra intellettuale è Joyce, una pscianalista e attivista politica. Modesta capisce che il tormento di Joyce deriva dalla vergogna della loro relazione omosessuale perché Joyce, dopo il piacere, piange. Piangere dopo un orgasmo: per quante di noi è familiare? Per Modesta è una sensazione sconosciuta, assurda. Lei non solo vuole godere – pienamente e senza vergogna – in camera da letto, ma vuole che tutti vedano e riconoscano la legittimità delle sue relazioni, anche di quella con Joyce, a qualunque costo. Ma, chiede Joyce, i tuoi figli?
I miei figli! Sono grandi i miei figli, e sarebbe un modo per metterli davanti alla realtà e vedere se la reggono questa realtà, o perderli.
Come poteva essere accolto un romanzo del genere nell’Italia degli anni ’70? In nessun modo, e di fatti non fu pubblicato. Le idee di Sapienza sono sconcertanti quasi persino per noi. Dopo aver letto il libro chiedetevi: quante donne, persone, conoscete che sanno vivere così, con l’arte della gioia? Non la gioia promessa dal wellness e della consapevolezza venduta un tanto al chilo dai sacerdoti del benessere. L’arte della gioia è credere che la gioia ci sia davvero, e andarsela a prendere.
Da bambina Modesta osserva la vita della madre, una donna in miseria e quasi senza nessun istinto vitale, senza parole, e decide che non sarà mai come lei, che lei le parole le imparerà, perché le parole spiegano il mondo e lo contengono, che non sarà povera – compirà reati e delitti per tirarsi fuori dalla miseria, perché sa che una donna è perduta senza soldi – e una volta raggiunta con calcolo e impegno la ricchezza si disferà di quella in eccesso, per generosità e per non esserne schiava. Modesta si libera di tutto ciò che la rende schiava: terreni, arte, ruoli, relazioni. Accoglie invece tutto quanto nutre la sua gioia e la sua libertà, anche ciò che potrebbe risultare strano, innaturale, sopratutto a chi alla società e alle sue regole si sottomette senza pensiero. E Modesta non si sottometterà mai: non si stupisce di amare il figlio di un suo amante o che un suo amante ami un membro della sua famiglia; non si stupisce dell’amore e del sesso tra un’infermiera e il suo paziente mongoloide; scoprirà che si può godere un piacere enorme aggiungendo il sesso in certe amicizie. E quando incontra qualcosa che la ferma non si allontana, ma osserva quel blocco, lo studia, cerca di superarlo, perché sa che oltre l’impedimento, interiore o esteriore che sia, c’è sempre un piacere nuovo ad aspettarla. A questo proposito voglio riportare un’ultima scena, che ho adorato. C’è letteralmente un “blocco”: Modesta è in prigione da qualche giorno e non riesce a defecare nel buco sul pavimento che raccoglie le deiezioni sue e della sua compagna di cella, Nina, l’anarchica romana che abbiamo incontrato prima. Pur parlando di merda, Sapienza riesce e raccontare il lato sensuale della scena, il suo aspetto liberatorio, gioioso, orgasmico, e lo fa con la verità di chi davvero conosce quella pastoia di desiderio, gusto, schifo, turbamento, assurdità che è il piacere. Nina incoraggia Modesta a liberarsi – devi cacare fijetta bella, devi cacare o la testa ti va in fumo e le budella in fuoco – e quando finalmente Modesta sente lo stimolo…
– E ti disperi? È na fortuna! Appoggiati al mio braccio. Meno male che non pesi! Ecco qua, levati le mutandine…[…] liberati per carità, non ti trattenere, si può morire di blocco intestinale. Non ti trattenere!
Colpa di quel “non ti trattenere” o del calore che i suoi fianchi comunicavano alle mie braccia, mi lasciai andare affondando il viso tra le sue cosce… Io mi liberavo e lei in piedi mi accarezzava i capelli sussurrando: – Brava di mamma, brava, falla tutta, tutta che ti salva!… – E, cosa che non avrei mai potuto immaginare, nel lasciarmi andare un godimento più dolce del rosolio e della lingua di Tuzzu mi fa ora piangere e sospirare non di vergogna ma di piacere, ripetendo: – Nina, Nina non mi lasciare…