Non sono moltissimi gli scrittori che mostrano un’indefessa devozione per la propria terra: Mario Rigoni Stern è uno di loro. Icona indiscussa del suo altopiano ad Asiago, ha letteralmente incarnato l’essenza della montagna, ed è divenuto uno tra gli interpreti più famosi e rinomati del rapporto fra uomo e natura. Con la sua scrittura profonda e complessa, l’autore asiaghese ha dato valore e volto ad un’identità locale che ha sempre considerato accessibile a tutti coloro che – pur vivendo nelle contraddizioni disarmanti della vita contemporanea – abbiano uno sguardo puro. L’opportunità di condivisione offerta da quei sentimenti di appartenenza alla comunità e di rispetto per la natura e le persone che la abitano è vivida nei suoi scritti, ed è l’unica (non solo di numero, ma soprattutto di qualità) cifra stilistica che voglia trasparire da essi.
Del resto, questa era la summa dei suoi intenti:
Non sono uno scrittore di professione, né un intellettuale tra virgolette. Vivo in paese e vivo da paesano. Scrivo quando ho qualcosa da scrivere, in particolari condizioni ambientali e climatiche. Quando c’è bel tempo, quando c’è il sole, ho da lavorare con l’orto e con la legna e non scrivo. Se invece piove o nevica, mi metto a tavolino e scrivo delle storie.
tratto dall’intervista rilasciata a Gian Piero Brunetta
Ora voglio anch’io mangiare una mela
Mario Rigoni Stern, cresciuto tra le montagne dell’altipiano asiaghese, nutriva un’immensa passione per l’ambiente naturale, pari solo alla sua grande propensione per l’etica civile e per la storia. Queste tre tematiche scorrono senza netti confini attraverso tutta la sua opera.
La natura raccontata da Stern non è mai idilliaca, anzi è spesso ostile, come nelle immense steppe gelide della Russia, è anche crudele come nella lotta per la sopravvivenza tra gli animali del bosco, ed è gioia pura quando è libera dalla guerra e dalle avide contraddizioni degli uomini.
Mi guardo intorno, le pecore pascolano tranquille, non ci sono cani né pastori; l’autunno è nei suoi colori più belli; è un paesaggio pastorale: sembra impossibile che qui sessant’anni fa c’erano fame, morte, miserie, urla di comando. Dentro al recinto che rinchiude il gregge sono cresciuti degli alberi di melo selvatico, alcune pecore sotto questi alberi addentano e masticano i piccoli frutti che sono caduti. Ora voglio anch’io mangiare una mela, una piccola mela rossa del Lager I/B: mi sembra un dono che la natura mi offre come diritto, come risarcimento di tanta non-natura patita.
tratto da Ritorno nel Lager I/B, in Aspettando l’alba e altri racconti, p.77
L’orrore della guerra vissuta su tre fronti e della prigionia emerge intensamente dalle sue parole, ma a lui la natura si rivela come opposta al male e agli orrori vissuti. La natura è l’essenza fondante della vita, è necessaria e salvifica.
Il paesaggio naturale è centrale in tutti gli scritti di Rigoni, persino in un libro che racconta di guerra come Il sergente nella neve:
Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno.
tratto da Il sergente della neve, incipit
Le descrizioni del paesaggio si fanno strada da tutte le direzioni, sono memoria, fotografia:
È freddo e si fa sera, la neve e il cielo sono uguali. A quest’ora nel mio paese le vacche escono dalle stalle e vanno a bere nel buco fatto nel ghiaccio delle pozze.
tratto da Il sergente della neve, p.87
Rigoni Stern è assolutamente convinto che la capacità di comprensione della natura da parte degli uomini sia necessaria, e che necessario sia soprattutto comprendere il limite della natura stessa, raggiunto il quale non si potrà tornare indietro. Non è possibile immaginare uno sfruttamento incondizionato di fonti limitate come l’acqua, l’aria, la terra.
Pensiero in comune con l’amico e conterraneo veneto Andrea Zanzotto, che ne sintetizza così l’essenza:
Vivere in mezzo alla bruttezza non può non intaccare un certo tipo di sensibilità, ricca e vibrante, che ha caratterizzato la tradizione veneta, alimentando impensabili fenomeni regressivi. […] Scompaiono le biodiversità e non sappiamo nemmeno se si potrà più parlare di natura, visto che la natura è sterilizzata dalla chimica, plastificata e che persino le colline vengono spostate dai bulldozer e ricostruite in favore di sole per ottimizzare i raccolti dei vigneti. […] Oggi siamo alla mancanza del limite e alla caduta della logica, sotto il mito del prodotto interno lordo: che deve crescere sempre, non si sa perché. Procedendo così, la moltiplicazione geometrica non basterà più ed entreremo in un’iperbole, che ho sintetizzato in un aforisma di tre versi: In questo progresso scorsoio / non so se vengo ingoiato / o se ingoio.
tratto da In questo progresso scorsoio, pp. 33-36
[…] il momento magico del bosco
Rigoni racconta in tutti i suoi libri – nessuna eccezione – il mondo naturale: descrive fauna e flora con la competenza di uno studioso, e con toni e sentimenti pacati, ma indignati, sprona alla salvaguardia di quel che resta dell’ambiente naturale.
Nel 1991 scrive Arboreto salvatico, incantevole inno al mondo naturale: qui, lasciandosi ispirare dalle numerose varietà di alberi – e dedicando ogni capitolo ad un albero diverso -, narra l’intreccio delle vicende umane a quelle naturali.
Arboreto selvatico non è solo un libro, ma è di fatto il progetto arboreo che realizzò attorno alla sua casa, da lui costruita al limitare di un bosco.
Nel corso degli anni, con l’ausilio dei figli, aveva piantato alberi, compagni di vita con cui invecchiare: abeti rossi e bianchi, larici, betulle, tigli, un faggio, un pino silvestre, un noce, un frassino, e molti altri.
Tra i suoi alberi-compagni prediletti vi erano l’elegante e fragile betulla e il forte e tenace larice.
Ma i larici che personalmente ammiro e fors’anche venero, sono quelli che nascono e vivono sulle scaffe delle rocce che portano il tempo: sono lì nei secoli a sfidare i fulmini e le bufere, sono contorti e con profonde cicatrici prodotte dalla caduta delle pietre, i rami spezzati, ma sempre, a ogni primavera quando il merlo dal collare ritorna a nidificare tra i mughi, si rivestono di luce verde e i loro fiori risvegliano gli amori degli urogalli. E all’autunno, quando la montagna ritorna silenziosa, illuminano d’oro le pareti.
tratto da Arboreto selvatico, p. 7
Forte e tenace, il resistente larice a cui nulla possono le intemperie, con le sue esigue esigenze, e con le sue profonde radici che non lasciano scappare via la terra, sembra rispecchiare la tempra dell’autore, che, descrivendolo, accosta le sue conoscenze naturali al senso di meraviglia. Se ne ricava così un effetto lirico ma realistico, che scatena nel lettore quello stesso stupore da lui provato.
Che cosa rimarrà? Forse queste mie povere parole?
Rigoni Stern era un narratore non un romanziere – così si definiva lui stesso appropriandosi della definizione di Benjamin – un cantastorie contemporaneo – aggiungo io – che ha raccontato storie vissute direttamente o narrategli da altri. Non c’è finzione nelle sue parole: i suoi libri narrano prevalentemente vicende autobiografiche. Ha raccontato la giovinezza ad Asiago dopo le distruzioni della Grande Guerra, gli anni da alpino combattuti sui fronti di Francia, Albania e Russia, ma anche gli anni di prigionia in Germania, ed infine la quiete rinfrancante della sua Asiago. Questi sono i luoghi dell’anima in cui ha ambientato i suoi racconti, quegli stessi luoghi che lo hanno consacrato come scrittore di successo, cantore indiscusso della montagna e della natura, ma anche interprete autentico della storia del XX secolo.
L’amore, anzi la passione viva per il paesaggio e le tradizioni dell’altipiano sono un’occasione per mostrare questo territorio al mondo, per difenderlo dalle banalità del consumismo.
A volte ho l’impressione di essere comandato di retroguardia dai miei avi, per non far travolgere il reparto, come durante la ritirata. Oppure di essere rimasto sul posto per testimoniare i segni di una civiltà che interessi esclusivamente venali e una grossolana banalità vorrebbero far sparire per avere mano libera: sono rimasto per raccontare quello che ho ereditato, quello che ho ascoltato e visto, quello che vedo e provo.
tratto da Essere scrittori in montagna, oggi
La libertà e lo spirito critico, soffocati dal conformismo e dalla retorica, sono a suo giudizio – come non essere d’accordo? – il preludio di tutti gli autoritarismi.
Rigoni non è uno storico, non ha la cura e il rigore richiesti dalla materia storica, ma i suoi scritti che sono letteratura che respira assumono di fatto una valenza universale.
Vi lascio con un video in cui con la pacatezza e la tenacia che lo hanno contraddistinto racconta il suo altipiano e con le parole-monito da uno dei suoi libri più famosi.
Natura, ecologia, parchi naturali, paiono parole riscoperte e di moda: ovunque se ne fa un gran parlare; e certe volte, appunto perché di moda, con poca cognizione e a sproposito.
Ma questo argomento è tanto importante e serio che meriterebbe da parte di tutti la massima attenzione, al pari dei grandi problemi che investono il nostro tempo. Mai come oggi l’uomo che vive in Paesi industrializzati sente la mancanza di «natura» e la necessità di luoghi: montagne, pianure, fiumi, laghi, mari dove ritrovare serenità ed equilibrio; al punto che viene da pensare che la violenza, l’angoscia, il malvivere, l’apatia e la solitudine siano da imputare in buona parte all’ambiente generato dalla nostra civiltà.
Se dobbiamo riconoscere che lo sviluppo dei grandi centri urbani e delle industrie, che attorno ad essi gravitano, hanno portato un notevole benessere materiale e migliorato le condizioni di vita di una parte dell’umanità, aumentato l’età media e l’istruzione, dobbiamo anche dire che così come corre questo sviluppo porterà a quello che gli scienziati chiamano «crescita zero» e poi, in tempi lontani, a una grande crisi. E tutto semplicemente perché la natura non è una risorsa illimitata, e quando sarà consumata scomparirà la vita; l’aria, l’acqua, la terra non sono risorse infinite.
tratto da la Prefazione a Uomini, boschi e api
Fonti consultate
Brunetta, Gian Piero. “MARIO RIGONI STERN.” Belfagor 64, no. 1 (2009): 53–70.
Rigoni, Stern, Mario. 1953. “Il sergente della neve”. Einaudi.
Rigoni, Stern, Mario. 1980. “Uomini, boschi e api”. Einaudi.
Rigoni, Stern, Mario. 1991. “Arboreto selvatico”. Einaudi.
Rigoni, Stern, Mario. 2004. “Aspettando l’alba e altri racconti”. Einaudi.
Rigoni, Stern, Mario. 1983. “Essere scrittori in montagna, oggi”. Montagna e letteratura. Atti del convegno internazionale no. 23: 149.