INTERZONE, la resistenza della cultura underground a Reggio Calabria: intervista a Teresa Russo

Ho sempre avuto scolpito nella mente il modello della donna emancipata e autosufficiente, quella che non ha bisogno di esistere né tantomeno essere in funzione di un uomo. Non è un caso che mia madre, sin da quand’ero poco più che uno scricciolo, ci abbia tenuto a raccomandarmi di non appoggiarmi mai a ciò che avrebbe potuto offrirmi un pene. In senso figurato, e chiaramente la parola ‘pene’ non è mai stata emessa dalla sua voce. Mi rendo anche conto che la frase poco più su possa suonare ambigua come gran parte dei discorsi che faccio. Ma il mio diletto è quello di poeticizzare e all’occorrenza spoetizzare ciò che scrivo così da non far sprofondare il lettore nel sopor aeternus, che poi andrebbe a macchiarmi l’anima e avrei l’ennesima stronzata da smaltire nella vita successiva.
Ho fatto anche musica come batterista, fino al giorno in cui sono rimasta talmente traumatizzata da una diagnosi ortopedica che il mio cervello ha provveduto a seppellire e sono andata avanti a OKI sublinguale, ghiaccio spray e fasciature (Bimbi, non fatelo a casa!); all’occorrenza – e intendo quand’ero presa da Euterpe e stati alterati della coscienza che accendevano in me quella certa scintilla – ho suonato anche con le nocche, dopo aver perso la bacchetta per aria. Da questi sedici pirateschi anni ne sono uscita con un charly con macchie di sangue ancora distinguibili, una tendinite cronica ed alcune esperienze da piccoli brividi.
Ancora peggio della sentenza dell’ortopedico si è rivelato il contatto con certi proprietari di locali che, nonostante un compenso minimo previamente pattuito, se ne uscivano a fine serata con “Scusate ma possiamo pagarvi solo con una birra“.
Voglio dire, possibilmente pagaci tua mamma con una birra e poi vediamo se anche lei non ti manda a fanculo.

Dovevo pur canalizzare ognuna di queste spinte. Ne è uscita fuori un’intervista ad una donna cazzuta, anche qui in senso garbatamente figurato.
E ci tenevo davvero tanto a portare la sua storia qui, a Radio Astrid.

Teresa Russo, che oltre ad aver sperimentato come me (e anche con me) la musica attiva, dal 2019 è a capo di quella che è l’incarnazione di una realtà piacevolmente anticonformista e circuito di promozione culturale. Perché Interzone no, non è solo una canzone dei Joy Division.
Si definisce “bassista autodidatta senza alcun rudimento“, tuttavia la sua sensibilità nel campo si è tradotta in un ambiente familiare a tema Twin Peaks e Cthulhu di Lovecraft nel cuore di Reggio Calabria, in cui ci si possa riunire per assaporare – oltre a degli ottimi drink preparati dalle sue mani e stagioni concertistiche di tutto rispetto – le tante sfumature che il panorama underground è capace di offrire.
Ed è giusto quella ventata di sana ribellione di cui l’ecosistema del sud Italia ha un disperato, disperatissimo bisogno!

Cristina: Miss Teresa, benvenuta a Radio Astrid. Facciamo le formali presentazioni?
Teresa: Ciao, sono Teresa. Cosa faccio? Combino guai. *ride* Scherzi a parte, gestisco Interzone, un’associazione di promozione sociale ma anche tendente al terzo settore, perché mi sembrava giusto a livello di denominazione e trasparenza; una cosa che mi ha sempre dato fastidio (soprattutto per quanto riguarda le nostre realtà) è il sotterfugio, ovvero essere qualcosa ma si è sempre qualcos’altro. ‘Sta roba non mi piace. Chiarezza sin da subito, in particolare dal punto di vista legale, anche perché se faccio il truffaldino non sto fregando lo Stato ma sto fregando uno come me. Sono un’associazione ma mi occupo in particolare di movimenti underground, sia dal punto di vista strettamente musicale che sotto il profilo artistico che può spaziare dalla poesia alla pittura alla creazione di arte digitale. Ma anche giochi che non siano per forza i classici Risiko e Monopoli eh, anche più di nicchia, per avvicinare i ragazzi, perché magari un locale in cui si vende prettamente alcool non può certo avvicinare dei minorenni… non sarebbe giusto, ed io non voglio guadagnare a tutti i costi, non sulle spalle degli altri! Non m’interessa. Ciò che m’interessa è portare avanti questo progetto che ora come ora è tutta la mia vita, anzi lo è da quando è nato nel 2019. Nasce sotto una stella brutta… ha cambiato anche diverse gestioni, però – tra virgolette – sono sempre stata io a capo come rappresentante legale.

C: Adesso giochiamo alle donnette prevedibili (cosa che mai saremo, quindi possiamo permetterci ‘sto svago passeggero) e affrontiamo la domanda più scontata dell’universo, così ci leviamo subito il pensiero. Interzone: com’è che nasce?
T:
Interzone nasce dalla fondamentale necessità di trovare un posto a Reggio Calabria in cui ci si possa riunire, dove si possa stare insieme in una maniera che non sia per forza estetica. Per intenderci, quei posti in cui vai per farti vedere a sostare fuori e scattarti il selfie fine a se stesso da pubblicare sui social. Parto dalla concezione che un locale debba avere qualcosa da offrirti, non per forza l’intrattenimento becero che può essere quello fatto dalla cover band di De André, ma anche dare la possibilità a tutti quei ragazzi che fanno musica propria di farsi conoscere dopo essere magari rimasti chiusi per due-tre anni in sala prove e aver buttato sangue per registrare un CD con tre tracce. È un tipo di condivisione che mi piace un sacco, vuoi perché sono cresciuta tra le sale prove (tra l’altro suonando anche con te). Nasco da bassista autodidatta con nessun rudimento, sono sempre stata una che ha condiviso la musica. Per me Interzone non è soltanto un pezzo dei Joy Division, ha un sacco di altre sfaccettature: in primis Cronenberg e poi beh, Lynch! Il locale, oltre ad essere la Loggia Nera di Twin Peaks, è anche e soprattutto Cthulhu (che è letteralmente la mia ossessione, tanto da avergli dedicato un paio di tatuaggi). Interzone, volendo, è anche un po’ Dylan Dog: nell’albo Zed ti ritrovi a camminare per strada, ma se ti sposti di pochi passi allora entri in un’altra realtà. Quindi sì, è questo: tu, nel bel mezzo di Reggio Calabria, ti sposti da quella che è la consuetudine e ti ritrovi in uno scantinato che – per l’appunto – è Interzone, cioè un qualcosa di completamente diverso!

C: Una visione complessa e affascinante, ed in effetti l’intenzione di ‘realtà alternativa’ è la stessa che ho percepito la prima volta che ci ho messo piede! Ti prego, rimaniamo ancora un attimo sul filone della banalità: se dovessi scegliere le canoniche 3 parole per definire il tuo locale, quali sarebbero e perché sceglieresti proprio quelle?
T: Beh… sicuramente già il nome stesso lo definisce: è una zona di passaggio che non c’entra nulla col Signore degli Anelli, eh… *ride*, nel senso che si tratta di un concetto che va al di là, al di sopra degli schemi, perché come ti spiegavo non rispecchia alcun tipo di locale (infatti questo me lo hanno pure rimproverato) sia dal punto di vista del marketing ma anche, assurdamente, da quante volte alla settimana apro e dai tipi di bottiglie che trovi dentro al locale. Di conseguenza diverso, ma veramente diverso! La seconda parola è cultura, perché alla base del mio intendere Interzone c’è da sempre la promozione dell’espressione artistica a 360°, senza limiti e senza restrizioni. In terzo luogo legalità, voler essere a tutti i costi regolare: pago un botto di tasse, l’associazione a cui sono affiliata, la SIAE ogni anno e pago chiaramente tutte le autorizzazioni per poter servire da bere. Questo perché sono del parere che la disobbedienza civile non si faccia non pagando questo e quest’altro, bensì prendendo sulle proprie spalle il rischio di andare avanti.

Ph. Francesco Fragomeni

C: Un rischio che, parliamoci chiaro, non tutti hanno le palle di prendersi. In ogni caso, ad avermi colpito è il clima rilassato e familiare che ci ho trovato, che volendo è anche un po’ quello che si respirava ai tempi del Cinque Quarti a Messina [n.b. per chi non lo conoscesse, storico circolo underground]. Cosa pensi sia essenziale offrire a chi fa un salto da te?
T:
Una visione nuova, un punto di vista nuovo. Perché sai, è come quei casi in cui si ascolta una sola campana e si ha un solo modo d’intendere le cose; io sono semplicemente un granello diverso in più. È un po’ come il discorso delle caravelle di Colombo (a me piace molto raccontare ‘sta storia): fondamentalmente gli indiani d’America – poracci, st’indigeni! – in realtà non videro arrivare Colombo con le proprie caravelle proprio perché mentalmente non conoscevano l’immagine di una nave, quindi quello che vedevano secondo loro faceva parte del paesaggio. È questo: se tu non hai una concezione, un’immagine mentale che possa esserci qualcos’altro, non sai che quell’altro esiste o esisterà davvero. Quindi sì, voglio decisamente offrire un punto di vista nuovo, perché non mi serve a nulla lasciarti altro che l’amaro particolare se poi manca tutto il resto, né essere l’ennesimo locale che fa concerti.

C: Pura curiosità voyeuristica: credi che l’essere donna abbia influito in qualche modo nel tuo lavoro?
T: Sì, perché non mostro le tette. Ho sempre la maglietta fino al collo – quella con il logo del locale – perché sono a lavoro e quindi non vado vestita come cazzo mi pare. Perciò sì, sono donna però non sono femmina (altra cosa che mi è stata rimproverata). Mi è stato detto che non posso capire come girano le cose in un locale né tantomeno come gestirle, che avrei dovuto limitarmi a preparare cocktail, se c’erano gruppi dovevo fare loro da mangiare, preparare il letto e dare ospitalità.

C: Una serva, in buona sostanza. Tutto chiaro. Restando in argomento, rivelami una bad experience che ti ha proprio fatto attorcigliare le budella… una delle tante. Magari la più ‘simpatica’.
T:
Bad experience? Eh… *ride* questa è tosta! Mi hanno definita imprenditrice in termine dispregiativo e hanno tentato di screditarmi. Io però sono una ragazza – non in primis un’imprenditrice – che ha un’associazione culturale e non guadagna chissà quanto, non voglio pestare i piedi agli altri e mi limito a fare il mio.

C: Credo sia decisamente il caso di sdrammatizzare, potrei farlo con un proverbio calabrese un po’ colorito ma mi limiterò a tagliar corto. Per cui adesso avrei proprio desiderio di sentire un’esperienza che – invece -ti abbia fatto ricordare tutto l’amore che nutri per il tuo lavoro.
T:
Senza dubbio i ragazzi che lo frequentano, soprattutto le nuove generazioni che preferiscono fare un salto al locale anziché stare in piazzetta. Ma ti dirò, è più una questione di vedere quella straordinaria realtà che si crea, non di soldi. E quando ‘sti ragazzi si prendono a bene vedendo che il locale è aperto, o che gasati condividono l’evento beh… è questa la cosa che più mi appaga in assoluto! *sorride* L’intenzione delle persone che frequentano è quella di stare bene insieme, indipendentemente dal tuo background (di cui non frega niente a nessuno e non determina la persona che sei). Questo rappresenta tutto l’amore che nutro per il mio lavoro. Un altro esempio è quando entra qualcuno che non ha idea di cosa bere, mi fermo con lui a parlare per dieci minuti per poi dargli esattamente quello che vuole e, dopo che ha assaggiato, mi dice “Come hai fatto a capire che era quello che cercavo?”. E occhio che non è il prezzo che paghi (anche perché spesso mi capita di offrire), la cosa che mi rende più felice è la partecipazione, il fatto che si verifichi un interscambio, tu che parli ed io che ti capisco. È l’interazione più grande che si possa avere!

Teresa e Max all’interno di Interzone

C: Infatti credo di doverti una bottiglia di vodka o due… Tornando a noi, mi risulta tu abbia creato una bella realtà nell’humus di una piccola città del sud Italia. La posizione geografica, per certi versi e certi progetti, può rivelarsi impietosa… sei d’accordo?
T:
Lo è, lo vedo nel pratico. È una questione soprattutto logistica perché molti gruppi non si spingono fina Reggio non sapendo poi come ammortizzare i costi, ovvero non sanno come riuscire a giustificare la spesa di arrivare fino in Calabria se non si fa anche la Sicilia. Di conseguenza preferiscono chiudere prima, fermandosi alle tappe più vicine. Giustamente fare questa toccata e fuga sarebbe dispendioso tanto per loro quanto per me. Tralasciando qualsiasi tipo di condizionamento ambientale, il punto è proprio questo che ti ho appena detto. Sarebbe comunque fantastico poter creare un cordone che unisca Calabria e Sicilia perché tante volte il sud si ferma a Napoli, o a Bari. Si ferma là, come i Litfiba *ride*
Il fatto è che dopo Napoli qui non arriva nulla, davvero. E fare questo cordone sarebbe parecchio interessante perché l’inverno appena trascorso ci siamo mossi così e abbiamo visto che funziona; perciò l’autunno che sta arrivando vorrei continuare a portare avanti questo disegno vedendo di accordarmi con persone che fanno le stesse cose che faccio io che ne so, ad esempio a Palermo oppure a Catania, anche a Messina, ovunque sia, pure per includere la Sicilia. Perché noi, Calabria e Sicilia – parliamoci chiaro – siamo tagliati fuori. Molto più di tante altre realtà del sud.

C: A proposito di gruppi, ho avuto occasione di osservare in silenzio e un po’ di nascosto come ti poni con le band che suonano da te. Per dirla alla Marlene Kuntz, “Per quel che ho visto in fondo mi è piaciuto“. Quindi ti domando, cos’è che ritieni indispensabile all’interno del binomio ‘gestore/musicista’?
T:
Senz’altro disponibilità e gentilezza, però mi sento di aggiungere anche il non essere formali. Non mi definisco propriamente un’organizzatrice di eventi, però ho sempre visto molta formalità e d’altro canto mi rendo conto che non si possa prendere tutto con rigidità. Sono abbastanza alla mano, ma soprattutto cerco di farti subito simpatia proprio per metterti a tuo agio e farti capire che sei tra amici come se ci conoscessimo da vent’anni. Ciò non significa che tu debba raccontarmi la storia della tua vita, per carità… però sei in un posto in cui non conosci un cazzo di nessuno, lontano dalla tua realtà, e che tu ti senta a casa è una conditio sine qua non. Pensa che la prima cosa che dico ai gruppi – testuale – è “Non mi rompete i coglioni: se quando finite di suonare non venite al banco a farvi un cicchetto mi arrabbio!”, nel senso che dovete volenti o nolenti, perché ci tengo ad offrirvelo io e perché non si può assolutissimamente pensare che la band si fermi nel momento in cui ha finito di suonare. Quindi, oh: posi lo strumento, vieni a bere e ci passiamo la serata! Regà non solo siete i benvenuti, non solo vi volevamo come gruppo… qua ci fa proprio piacere che vi stiate divertendo! La serata è questa, e la serata è anche per voi. Ad ogni live, poi, hai un’esperienza a tutto tondo: il gruppo – in quel frangente – diventa parte essenziale dell’organizzazione, sono tante teste che lavorano in sincrono per dare vita ad un evento. E ci si scambia facilmente i ruoli, durante la serata… ne usufruisco anche io! Diventi gestore e fruitore, sei musicista ma sei anche tu cliente. E poi cazzo, sono davvero contenta quando i gruppi mi dicono “Se passi dalle nostre parti, ricambiamo!” o “Interzone per la vita!”… oppure i bigliettini che mi lasciano i ragazzi quando vanno via dopo essersi svegliati, la magliettina o il CD. Eccome, se mi sento ripagata!

C: Tra l’altro, ho notato con piacere che Interzone non si ferma soltanto al piacere del drink, all’atmosfera al neon (che, come ogni luce che intercetta il mio sguardo, trovo straordinariamente affascinante!) e musica live . Ma lascio parlare te!
T:
Infatti! C’è il progetto Cinezone che io mi limito ad ospitare: è a cura di Pasquale Massara e Celeste Gullì che sono due ragazzi formidabili e grandissimi appassionati di cinema! Hanno deciso di portare all’interno di Interzone questo cineforum multisensoriale in cui loro si occupano non soltanto di organizzare la proiezione (capisci che, essendo un’associazione, i posti rimangono limitati), ma rimangono anche dopo la proiezione a commentare il film mentre io preparo e servo cocktail o liquori a tema, proprio per fare in modo che gli spettatori si fondano maggiormente nell’intenzione e nell’atmosfera della pellicola. Sai, l’alcool non è essenziale e non è un ‘mezzo’, però indubbiamente aiuta a sciogliersi quel tanto che basta per la discussione, ti scioglie quel minimo d’inibizione ed in quel frangente è comunque piacevole sorseggiare qualcosa. Abbiamo anche ospitato svariate mostre: una un po’ diversa è stata I Don’t Love You, una sorta di anti-San Valentino che includeva fotografia, pittura, scultura e disegno digitale con artisti provenienti da tutta Italia, tra cui i noti del settore come l’autore di Bobo, Sergio Staino, che ci ha mandato una sua tavola autenticata. Mi sarebbe piaciuto avere anche qualche tavola di Manara, che in effetti avrebbe dovuto esporre con noi ma alla fine – purtroppo – ci sono state delle complicazioni. Tra l’altro, in questa occasione Bruno Latella (un artista che conosco e che ho visto crescere) mi ha lasciato un’opera permanente che si trova tuttora sopra la console del DJ e che è, appunto, una… vulva stilizzata *ride* che nel mezzo c’ha questo simbolo esoterico che poi sarebbe lo stesso degli Einstürzende Neubauten, quindi fondamentalmente ha colto pienamente l’intenzione di Interzone, tutto il suo concetto, perché ha preso sia la musica che l’arte che l’essere anticonvenzionale e li ha fusi assieme!

Ph. Giuseppe Vizzari

C: Questo mi fa ricordare di quella volta che avevo intenzione di ricoprire un’intera parete della mia camera con dei dildo. Trovo sia davvero liberatorio esternare un concetto, un’astrazione, attraverso un mezzo così potente come la sessualità! Piuttosto, hai nuovi progetti in vista?
T:
Sì! L’anno scorso Interzone si è mosso parecchio nell’ambiente underground per quanto riguarda il metal; quest’anno, anche grazie al nuovo collaboratore e mio compagno Max Bovi, abbiamo intenzione di rivoluzionare ed ampliare la fruizione. Poi Max in questa realtà ci ha vissuto praticamente da sempre, oltre ad avere un gruppo (i Carcaño) con cui sta andando avanti da parecchio tempo. Prenderà le redini della direzione artistica che finalmente sarà più variegata ed ampliata per com’è giusto che sia. La seconda intenzione è quella d’inserire dei giochi di ruolo che possibilmente siano più veloci rispetto a D&D, meno macchinosi e che non prevedano per forza l’uso di un manuale in modo tale da poter coinvolgere, includere e far divertire tutti, anche chi non ci si è mai cimentato . E poi, un sogno nel cassetto che non so se riuscirò mai a realizzare: mi piacerebbe un sacco portare spettacoli di stand-up comedy di cui sono letteralmente patita, però sempre qualcuno che si muova a livello underground.

C: Abbandoniamoci per un attimo a sognare, io per prima: se potessi scegliere un artista che ami, da ospitare nel tuo locale, chi sarebbe? Occhio che se dici ‘na roba tipo Malgioglio vado in brodo di giuggiole e come minimo mi trovi a sostare di fronte alla saracinesca almeno una settimana prima.
T:
Ma sai, in realtà vorrei tanto ospitare Giorgio Montanini, uno stand-up comedian. La sua visione caustica è un po’ simile alla mia, soprattutto per quanto riguarda la religione e l’imagine ultrà della politica, su questo buonsenso oscurato che mi trova molto partecipe, sul politically correct o sul fatto che la politica vada decisamente rifatta da capo e non da persone che hanno settant’anni; le politiche giovanili vanno lasciate ai giovani. Durante la pandemia ha preso posizioni controverse con le quali personalmente non mi ci ritrovo, ma sicuramente mi trova d’accordo dal punto di vista dell’espressione artistica. Lui, comunque sia, non impone le sue ideologie e lo dice chiaramente.
Anche Malgioglio, cara! Malgioglio sì, tutta la vita. Alla fine, io in casa sono come lui! *ride*

C: Perciò posso sperarci… *rido, rido istericamente come una piccola, docile fangirl* Siamo agli sgoccioli: chi non vorresti mai tra le palle?
T: Sì, possiamo contattarlo *ride, con il giusto grado di preoccupazione* Chi non vorrei… non lo so. Mah, chiunque trovi Mario Giordano interessante. Questa gente qua, fondamentalmente.

C: Allora ti piacerà sapere che a me Giordano incute un obbligatorio grado di preoccupazione. Ultima domanda, forse la più intensa: che consiglio ti sentiresti di dare a chi vuole aprire un locale? Che sia underground o meno, non importa.
T:
Mi sentirei di dire che se vuoi fare una cosa del genere, soprattutto in una città che non è Milano o un’altra big city, una cosa che devi metterti in testa è che non puoi fare la guerra dei ‘luppini ‘ . Qui la concorrenza non esiste: ci si fa da spalla l’un l’altro, ci si organizza e si collabora cercando di creare un circolo, perché chiaramente un giorno la gente viene da te e quello dopo da me. Il punto è che se c’è rottura si crea automaticamente una divisione nelle persone, e lo sappiamo tutti che la divisione non genera mai granché di buono. Secondariamente, devi avere un sacco di pazienza e far pace con l’idea che le cose possano cambiare dall’oggi al domani, perché se non lavori non campi, e se non lavori il locale non va avanti e non cresce. Il locale e tutta la roba che ci sta dietro.

C: Beibi, non posso che ringraziarti per questa bella chiacchierata e per aver portato pazienza dopo tutta ‘sta sequela di domande!
T: Graie a te, è stato un piacere!

Non resta quindi che augurare il meglio a Teresa ed incrociare le dita affiche realtà come la sua (e come quella di tanti altri) possano espandersi a macchia d’olio!

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