La figlia oscura di Elena Ferrante, pubblicato da “Edizioni e/o” nel 2006, è il racconto difficile dei sentimenti contraddittori che legano genitori e figli. Leda, la protagonista, appare come una donna sofisticata, contemporanea, autonoma e ponderata, tuttavia frantumata dalla tristezza e dai ricordi. È il racconto di molte altre personagge di Ferrante – Delia, Olga, Lenù: relazioni di madri e figli, di abbandoni e fughe, di assenze e ombre.
«A quell’epoca avevo continuamente mal di stomaco per la tensione, erano i sensi di colpa: pensavo che ogni malessere delle mie figlie fosse causato da un mio comprovato difetto d’amore».
*il titolo è estrapolato dal testo dell’estratto che segue.
La spiaggia era gremita. Cercai con lo sguardo Rosaria, non la vidi, il clan sembrava disperso, confuso tra la folla. Solo guardando con attenzione riuscii a individuare Nina e il marito che passeggiavano lungo la battigia.
Lei aveva un due pezzi di colore blu, mi parve di nuovo molto bella, si muoveva con la solita naturale eleganza, anche se in quel momento stava scandendo qualcosa con foga; lui, senza canottiera, era più tozzo di sua sorella Rosaria, bianco senza nemmeno gli arrossamenti del sole, i movimenti misurati, sul petto peloso una catena d’oro con un crocefisso e, tratto che mi sembrò repellente, una pancia grossa, divisa in due metà gonfie di carne da una cicatrice profonda che andava dal bordo del costume all’arco delle costole.
Mi meravigliai dell’assenza di Elena, era la prima volta che non vedevo madre e figlia insieme. Ma poi mi accorsi che la bambina era a due passi da me, sola, seduta sulla sabbia al sole, il cappello nuovo della madre in testa, giocava con la bambola. Notai che aveva l’occhio ancora più arrossato, a tratti si leccava il muco che le colava dal naso con la punta della lingua.
A chi assomigliava. Ora che avevo visto anche suo padre, mi pareva di poter distinguere in lei i tratti di entrambi i genitori. Si guarda un bambino e subito comincia il gioco delle somiglianze, c’è fretta di chiuderlo dentro il perimetro noto dei genitori. Di fatto è solo materia viva, ennesima carne casuale venuta da lunghe catene di organismi. Ingegneria – la natura è già ingegneria, anche la cultura lo è, la scienza viene a ruota, solo il caos non è ingegnere – e insieme necessità furibonda della riproduzione. Bianca l’avevo voluta, un figlio lo si vuole con una opacità animale rafforzata dalle credenze correnti. Era arrivata subito, avevo ventitré anni, suo padre e io eravamo nel bel mezzo di una dura lotta per restare entrambi a lavorare nell’università. Lui ce la fece, io no. Un corpo di donna fa mille cose diverse, fatica, corre, studia, fantastica, inventa, si sfianca, e intanto i seni si fanno grossi, le labbra del sesso si gonfiano, la carne pulsa di una vita rotonda che è tua, la tua vita, e però spinge altrove, si distrae da te pur abitandoti la pancia, gioiosa e pesante, goduta come un impulso vorace e tuttavia repellente come l’innesto di un insetto velenoso in una vena.
La tua vita vuole diventare di un altro. Bianca fu espulsa, si espulse, ma – lo credevano tutti, intorno a noi, e lo credemmo anche noi – non poteva crescere sola, troppo triste, ci voleva un fratello, una sorella per compagnia. Perciò, subito dopo di lei, obbediente programmai, sì, proprio come si dice, programmai, che mi crescesse nel ventre anche Marta.
Così a venticinque anni ogni altro gioco per me era finito. Il padre correva per il mondo, un’occasione dietro l’altra. Non aveva nemmeno il tempo di vedere bene cosa era stato copiato dal suo corpo, com’era venuta la riproduzione. Le guardava appena, le due bambine, ma diceva con tenerezza vera: sono proprio identiche a te.