Al Capone, il musicista che non t’aspetti

Acqua in bocca: in una delle mie vite precedenti sono stata una flapper suicida! Non so che nome avessi eppure ricordo distintamente gli abiti di ottima foggia che mi si posavano sul corpo morbidi come una nuvola, un pianoforte a mezza coda e lunghe e pesanti tende di velluto rosso scarlatto che terminavano raggrumate sul pavimento e coprivano qualche timido raggio di sole che osava far capolino da finestre molto alte. Nonostante i lussi e qualche opportuno vizio, ho comunque concluso quella breve esistenza accomodata in una vasca da bagno, vai a scoprirne il perché…
Chissà se è questo l’irrisolto che mi spinge ad un certo ‘languore’ ogniqualvolta si tocchi la tematica dei ruggenti anni Venti.

Sfido chiunque a non amarli, che abbiate o meno vissuto un’altra vita immersi in quel periodo.
Sono gli anni in cui l’aria d’innovazione inizia a fare rullare i suoi tamburi: nelle big cities impera lo stile art déco, in tutta la sua gelida imponenza; Poirot esce dalla garbata penna di Agatha Christie e – di contro – ‘Di qua dal paradiso‘ da quella più esuberante e a tratti nevrotica di un giovanissimo Francis Scott Fitzgerald; Man Ray, personaggio poliedrico ed anticonvenzionale, fa esplodere la sua arte sotto varie forme tra cui la fotografia, regalando al mondo scatti che rimarranno scolpiti nella storia e saranno di forte ispirazione ai posteri; i film muti francesi sono la crème de la crème, e ‘Un Chien Andalou‘, scritto dal pittore surrealista Salvador Dalì e diretto da Luis Buñuel entrerà di prepotenza nei fotogrammi psichici dei cineamatori con l’iconica scena della donna il cui bulbo oculare viene tagliato da un rasoio; il compositore Edgar Varèse mette su spartito ‘Hyperprism‘, breve opera per strumenti a fiato, ottoni e percussioni in cui Varèse spazializza la musica per farla diventare un prisma in una dimensione di pura diffrazione; sono gli anni delle donne di Modigliani, quelle dallo sguardo che sovente rimane perso e quasi sospeso al di là di ogni altra cosa.

Le pagliette – altrimenti dette ‘magiostrine’ o ‘boater’ – adornano ancora il capo dei gentiluomini e lo faranno per un’altra decina di anni circa, gli stessi uomini che anacronisticamente parlando spereresti d’incontrare su Tinder (almeno io) mentre invece sei destinata ad un limbo cibernetico di tizi che mettono foto con le proprie ex; le donne, invece, abbandonano la costrizione dei corsetti in favore dell’essenziale necessità di riappropriarsi del loro respiro. Se vuoi divertirti assisti ad uno spettacolo di vaudeville, mentre se sei una gentil donzella fremi non per il tizio dalla faccia di maiale dei Backstreet Boys (questo esempio non prova che io sia vecchia) ma per Buster Keaton, che nel pieno della sua ultima muta avventura cinematografica ti manda in subbuglio le più intime e celate frivolezze con il fascino mozzafiato di uno sguardo imperturbabile che pare scalpellato nel marmo.

Ai giovinetti scapestrati e spudorati, piuttosto, era riservato un destino diverso, meno morigerato e di gran lunga godereccio : sfavillanti coppe di champagne rette svenevolmente tra due polpastrelli, la visione delle esili ginocchia delle flapper che si scuotono al ritmo di un frenetico charleston.
È l’epoca d’oro del jazz, delle big band e soprattutto del proibizionismo contrastato dagli speakeasy, locali illegali e nascosti che avevano la missione di far girare alcool di contrabbando (n.b. non sempre di qualità); li trovavi tramite passaparola – ‘speakeasy‘, appunto – ed erano caratterizzati dal fatto che si dovesse per forza parlare piano per non venire scoperti dalla pula.

Shhh, parola d’ordine: SEGRETEZZA!

In questo turbinio di arte e creatività che sembrano inesauribili, di innovazioni e rivoluzioni, di emozioni a mille all’ora e adrenalina data dalla ribellione, nasce e cresce un personaggio controverso.
Sono questi gli anni in cui il mondo assiste alla rapida ascesa del gangster più potente ed influente dell’era del proibizionismo, e forse il più famoso di tutti i tempi.
Se solo Scarface potesse parlare, credetemi, ne avrebbe pure troppe da raccontarne!
E quasi certamente non mancherebbe di farlo con un sorriso sulle labbra, gradevolmente compiaciuto dalle sue stesse gesta.

Potendo farci presenza invisibile ed eterea che alita silenziosa su Alphonse ‘Al’ Capone, durante i suoi primi anni di vita, vedremmo un personaggio fortemente decontestualizzato da quanto la cultura di massa ci ha tramandato, magari ne avvertiremmo addirittura l’umana fragilità. Nasce a Brooklyn da una famiglia modesta, di origini italiane, all’interno di un ambiente umile e degradato, in un paese dove l’immigrazione era vissuta come una piaga e lo straniero veniva squadrato con disgusto e sospetto; l’amore per l’Italia, il suo popolo e la sua cultura allora non era neppure contemplato, anzi l’italiano era trattato alla stregua di un farabutto senza distinzione alcuna. Capone, come molti altri, si è trovato, suo malgrado, a fronteggiare questo violento clima razziale.
Eppure il giovane Alphonse era uno studente promettente e dotato di buona sagacia, e per un paio d’anni giocò perfino a baseball da semi-professionista.
Di contro, aveva già un temperamento iracondo ed incontenibile: lasciò la scuola a quattordici anni per aver sferrato un pugno ad una insegnante che, stando a quanto viene raccontato dal suo biografo, lo aveva schernito per via delle sue origini. Di lì a poco entrò a far parte di piccole gang avendo un primo approccio con la microcriminalità, ma l’incontro decisivo fu quello con il noto gangster Johnny Torrio che divenne il suo mentore.
Alphonse divenne così Al l’ambizioso, lo spietato, il carismatico. Ed il resto è storia.


Della sua sanguinosa carriera se n’è discusso in lungo e in largo, ma è poco frequente che ci si addentri nella sua sfera più intima e personale.
Non tutti sanno che Al Capone nutrisse una vera e propria passione per la musica, e che fosse inseparabile dal suo fonografo e dalla sua impressionante collezione di dischi di opera italiana che collezionava e custodiva gelosamente: era un grande estimatore di Giuseppe Verdi, ed in particolare dell’Aida. Allo stesso modo, seguiva con fervore la scena jazz di Chicago, in cui operava.

Dell’amore di Al per il jazz ne sa qualcosa il pianista Thomas Wright “Fats” Waller che, da buon figlio di predicatore si era sempre curato di non sporcarsi la fedina penale.
Fats aveva ventuno anni quando da New York finì a fare una serie di concerti allo ‘Sherman Hotel’ della Windy City, e al termine di una delle serate si trovò la canna di una pistola che gli premeva senza troppa cortesia sul fianco: apparteneva ad uno dei ‘Boys‘ di Capone, che lo prelevarono e lo spinsero di prepotenza sul sedile di una limousine nera senza dargli la minima spiegazione. Un rapido comando all’autista, il tempo della strada (che ad un Waller immobilizzato dal terrore dovette sembrare seriamente infinito) e si giunge a destinazione. Finalmente è arrivato il momento dei chiarimenti: gli scagnozzi lo avevano rapito per fare ad Al un regalo di compleanno. Condussero il pianista ad una festa che sarebbe durata ben tre giorni e chiesero lui di suonare, stavolta mostrando un briciolo di buona creanza. Il poveretto non ebbe alternative, suonò per tutto quel tempo schiacciando pisolini tra un set e l’altro. Ma c’è anche da specificare che fu ripagato da laute mance.
La vita da musicista non è mai stata una pacchia, la frase “Non sparare al pianista” dovrebbe ricordarcelo.

Curiosamente, però, una delle canzoni più amate dal gangster era una delle ballate britanniche più famose e struggenti risalente alla prima guerra mondiale, il cui testo aveva commosso all’inverosimile i cuori dei soldati inglesi e che gli animi più nostalgici si trascinarono dietro per decenni: ‘Roses of Picardy‘ aveva la caratteristica di essere straordinariamente malinconica raccontando la sconfortante disperazione di una donna che attendeva invano il ritorno della sua dolce metà dal fronte.

Il paroliere Frederick Weatherlyche tre anni prima aveva firmato il testo di ‘Danny Boytrasse ispirazione dalla vicenda dolceamara di un suo amico, creando quello che sarebbe stato il brano più noto del 1916 con ben 50.000 copie vendute ogni mese in Gran Bretagna, dalla sua creazione sino all’armistizio.
La canzone passò successivamente a spezzare anche i cuori dei soldati americani.

Quando Capone, nel 1930, venne condannato ad undici anni di reclusione ed una salatissima multa con l’accusa di violazione fiscale e del Volstead Act (la legge sul proibizionismo), fu spedito prima nel penitenziario di Atlanta dove – otto anni dopo – gli venne diagnosticata una forma di sifilide. Successivamente venne trasferito ad Alcatraz, costruita pochi anni prima.





Nella blindatissima prigione, abbiamo occasione di vedere un Capone che si diletta pienamente nella musica: grazie ad una buona condotta gli venne concesso di entrare a far parte della banda del penitenziario.

Qui si dilettava a suonare il banjo e la mandola (parente del mandolino) con estrema disinvoltura, ed era frequente avvertire il suono di uno dei due strumenti viaggiare libero dalle sbarre della sua cella.

Tra quelle stesse sbarre si diceva anche che Capone vedesse lo spirito di James ‘Jimmy’ Clark, mafioso di basso rango che lavorava per il suo rivale Moran Bugs, al quale venne strappata la vita durante il La Strage di San Valentino: era il 14 febbraio del 1929 quando la banda di Capone si lanciò al massacro di quella di Bugs segnando una pagina nera della storia degli Stati Uniti, decretando una volta per tutte l’egemonia della mafia italo-americana. Capone era convinto che l’anima di Jimmy lo tormentasse, un ‘castigo che si porterà dietro fino alla fine dei suoi giorni e che in realtà era presumibilmente opera della sifilide che gli provocava gravi allucinazioni.

Nel periodo di prigionia ad Alcatraz, Capone compose ‘Madonna Mia‘, canzone d’amore di straordinario pregio se si pensa da quale mano sia saltata fuori.
Il testo era commovente, di una pallida e delicata bellezza, pregno di sentimento e dedicato all’amatissima moglie Mae a testimonianza dell’immortale amore che nutriva per lei.

La copia originale spettò di diritto a Padre Vin Casey, che all’epoca si trovava in seminario e faceva spesso visita ai detenuti del carcere. Una presenza che per un Capone quasi definitivamente deteriorato dalla sifilide si rivelò senza dubbio di grande conforto.
A fine spartito, si può leggere la dedica scritta dal pugno dello stesso Al: “Al mio buon amico Padre Vin Casey con i migliori al mondo per un Buon Natale sempre per te, Alphonse Capone”.

Una delle copie dello spartito fu riesumato a settant’anni di distanza e venne battuto all’asta per la cifra da capogiro di 65.000$.

“Aveva un lato umano, dopotutto”.

APPROFONDIMENTI:

  • CINEMA:

    • ‘Al Capone‘ – regia di Richard Wilson, 1959.
    • ‘Il massacro del giorno di San Valentino‘ – regia di Roger Corman, 1967.
    • ‘Capone‘ – regia di Josh Trank, 2020.

  • LIBRI:

    • ‘ L’Impero Dei Gangsters. Con Al Capone A Chicago Ai Tempi Del Proibizionismo‘ – Kenneth Allsop, Vallecchi (1968).
    • ‘Capone: La vita e il mondo del re dei gangster.‘ – John Kobler, Mondadori (2004).
    • ‘Uncle Al Capone: The Untold Story from Inside His Family.” – Deirdre Marie Capone, Recap Publishing LLC (2010).
    Dry America. Il proibizionismo alcolico negli Stati Uniti (1620-1933) – Giovanni Fenu, Booksprint (2014)
    ‘Al Capone in St. Petersburg, Florida’ in Hidden History of St. Petersburg. – Will Mochaels, Charleston, SC: The History Press (2016).
    • ‘Nel covo dei gangster. La lotta al crimine raccontata dal padre dell’FBI‘ – John E.Hoover, Pgreco (2019).

  • AUDIOLIBRI:

    Al Capone – Il re dei gangster‘ – Steven Rubinstein e Isaac Berkowitz, letto da Antonino Barbetta – Audible.

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