Tutto sull’amore dell’autrice americana bell hooks è un’opera audace che affronta una sfida inedita. hooks, allontanandosi temporaneamente dai suoi ambiti consueti (Black Studies e Women’s Studies), esplora un argomento complesso e, al contempo, apparentemente banale: l’amore. Un tema insidioso, che rischia di mettere in difficoltà chiunque provi ad affrontarlo, tanto più se si tratta di una donna, nera e accademica. Come, dunque, discutere d’amore senza trasformarlo in un insieme di formule preconfezionate?
“Nella vita di tutti i giorni tanto gli uomini quanto le donne ne parlano poco. Il silenzio ci mette al riparo dall’incertezza”.
Parliamone, dunque, educhiamoci all’amore.
Chi ha seguito il processo di crescita di un bambino a partire dal momento in cui è venuto al mondo, avrà sicuramente notato che, prima di approdare al linguaggio, prima di saper riconoscere l’identità di chi si prende cura di lui, il neonato risponde alle cure amorevoli e affettuose. Di solito i neonati reagiscono con sguardi o gorgoglii di piacere. Man mano che crescono, rispondono all’affettuosità della cura dando a loro volta affetto, emettendo gridolini di gioia alla vista di una figura accudente a loro gradita. L’affetto, tuttavia, non è che una componente dell’amore. Per amare davvero dobbiamo imparare a mettere insieme vari elementi: cura, affetto, riconoscimento, rispetto, impegno e fiducia, oltre a una comunicazione onesta e aperta. Se da piccoli abbiamo fatto nostra una definizione sbagliata dell’amore, una volta adulti ci sarà difficile amare. Partiamo determinati a imboccare la strada giusta, ma andiamo nella direzione sbagliata. In genere si comincia presto a pensare all’amore come a un sentimento. Quando ci si sente profondamente attratti da qualcuno, si investono su di lei o su di lui sentimenti ed emozioni. Il processo di investimento attraverso il quale la persona amata diventa per noi importante si chiama «catessi». Nel suo libro, Peck1 fa giustamente notare che molti di noi «confondono la catessi con l’amore». Tutti sappiamo quanto sia frequente che individui che si sentono legati «per catessi» a un’altra persona sostengano di amarla, anche se la stanno ferendo o trascurando. Poiché ciò che provano è catessi, insistono a dire che il loro è un sentimento d’amore.
Se per amore intendiamo il desiderio di coltivare la crescita spirituale nostra e della persona amata, diventa chiaro che, se la offendiamo e la maltrattiamo, non possiamo sostenere di amarla. Amore e violenza non possono coesistere. L’abuso e la trascuratezza sono, per definizione, l’opposto dell’attenzione affettuosa e della cura. Spesso sentiamo di un tizio che picchia i figli e la moglie e poi va al bar dell’angolo a proclamare con passione quanto li ama. Se parli con sua moglie in una giornata buona, può darsi che sostenga anche lei che il marito, malgrado il comportamento violento, la ama. Moltissimi di noi hanno alle spalle famiglie disfunzionali, che ci hanno convinti che in noi c’era qualcosa che non andava, inculcandoci un senso di vergogna, sottoponendoci a maltrattamenti fisici o verbali e trascurandoci emotivamente, proprio mentre ci insegnavano a credere di essere amati. Per molti di noi è semplicemente troppo pericoloso accettare una definizione dell’amore che non ci permetterebbe più di pensare che nella nostra famiglia ce n’era. Troppi di noi hanno bisogno di aggrapparsi a un’idea d’amore capace di rendere accettabili gli abusi, o che almeno ci consenta di credere che ciò che abbiamo subito non era poi così tremendo.
Cresciuta in una famiglia in cui i rimproveri aggressivi e le umiliazioni verbali coesistevano con montagne di affetto e di cura, ho fatto fatica ad accettare il termine «disfunzionale». Siccome ero e sono tuttora affezionata ai miei genitori, a mio fratello e alle mie sorelle, orgogliosa di tutte le dimensioni positive della nostra vita familiare, non volevo descrivere me e i miei cari utilizzando un termine che implicasse che la nostra vita insieme era stata solo negativa o sgradevole. Non volevo che i miei genitori si sentissero denigrati; ero riconoscente per tutte le cose buone che avevano saputo darci. Con l’aiuto della terapia sono riuscita ad accettare il termine «disfunzionale» e a servirmene per descrivere, non per dare giudizi assoluti e negativi. La mia famiglia d’origine ha fornito, durante la mia infanzia, un ambiente disfunzionale e tale rimane. Il che non significa che non sia anche un luogo in cui circolano affetto, gioia e attenzioni.
Da bambina poteva capitare che un giorno venissi accudita con affetto, apprezzata per la mia intelligenza e stimolata a coltivarla, e che, qualche ora dopo, mi si dicesse che, proprio perché pensavo di essere tanto in gamba, probabilmente sarei diventata matta e mi avrebbero rinchiusa in un istituto per malati di mente, dove nessuno mi sarebbe venuto a trovare. Non sorprende che questo strano miscuglio di cura e durezza non abbia alimentato positivamente la mia crescita spirituale. Applicando la definizione di Peck alla mia esperienza infantile in seno alla mia famiglia d’origine, onestamente non potrei definirla un’esperienza d’amore.
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Molti di noi fanno fatica ad accettare questa definizione dell’amore: là dove c’è violenza, non si è mai amati. A molti bambini che hanno subito violenze fisiche o psicologiche, i genitori o chi ne svolge il ruolo hanno insegnato che l’amore può coesistere con i maltrattamenti. E, in casi estremi, che l’abuso è un’espressione d’amore. Una volta cresciuti, spesso questo pensiero bacato determina la nostra percezione dell’amore. Oltre a rimanere aggrappati all’idea che gli adulti che ci hanno maltrattati e mortificati nell’infanzia lo facessero per amore, cerchiamo di razionalizzare le ferite che ci vengono inflitte oggi da altri adulti, continuando a interpretarle come un segno d’amore.
- Si tratta del testo Voglia di bene, manuale di auto-aiuto dello psichiatra M. Scott Peck, la cui prima edizione statunitense è del 1978. ↩︎