Il 19 agosto del 1837 una nuova invenzione fu presentata ufficialmente presso l’Accademia delle scienze e delle arti visive di Parigi: il dagherrotipo, l’antenato della macchina fotografica. Da allora, quel giorno, è riconosciuto come il giorno in cui la fotografia è nata e viene festeggiata. In occasione della giornata Mondiale della fotografia, parlerò di 5 grandi maestri della fotografia del ‘900. Grandissimi fotografi che non solo ci hanno regalato immagini simbolo del secolo trascorso, ma che hanno nobilitato questa magnifica arte agli occhi del mondo intero.
Henry Cartier-Bresson
Nasce a Chanteloup nel 1908, da una ricca famiglia francese. Inizialmente, vuole diventare pittore e negli anni ’20 si avvicina pertanto al movimento surrealista che tanto influenzerà il suo modo di rendere ed interpretare i dettagli della vita quotidiana. Non riuscendo, però, come pittore, trova nella fotografia il modo con cui fissare l’eternità in un istante. Sceglie, così, una Leica 35 mm come suo mezzo espressivo. Saranno i suoi viaggi in Messico ed in Europa fra il 1932- 1935 a consacrarlo come art-photographer a New York, ma soltanto nel ‘37, al suo ritorno a Parigi, inizierà la sua carriera da fotogiornalista.
Con la seconda guerra mondiale, si arruola e fa parte della resistenza francese. Catturato dai nazisti, riesce, fortunatamente, a scappare e a documentare la liberazione di Parigi nel ‘44.
Divenuto, ormai famoso, fonda nel ‘47 la storica agenzia Magnum Photos: l’agenzia che ha definito e stabilito i canoni etici ed estetici con cui il fotogiornalismo, tutt’oggi, racconta il mondo. Pubblica, poi, nel ’53 il volume Il momento decisivo, libro considerato sacro per tutti i fotografi di reportage.
Attivo come fotogiornalista fino alla fine degli anni ’70, Henry Cartier- Bresson, è stato il fotografo più importante del ‘900, tanto da essere soprannominato l’occhio del secolo. Fotogiornalista e ritrattista, è stato il primo a considerare e ad elevare il fotogiornalismo a vera e propria arte. Per lui, la macchina fotografica era ciò che il pennello è per il pittore e gli permetteva di immortalare immagini di vita quotidiana con una precisone ed un tempismo senza eguali, andando al cuore di ciò che fotografava. La sua tecnica era quella di allineare occhio, testa e cuore e scattare più foto possibili, affinché da esse emergesse lo scatto perfetto, in cui alla perfezione erano mostrati dettagli, soggetti ed eventi, di quello che diventava, così, un momento memorabile.
Il suo modo di far fotografia, è stato ispirazione e modello predominante per i fotografi di tutto il ‘900.
Robert Capa
Endre Ernő Friedmann nasce a Budapest nel 1913. Dopo aver studiato scienze all’università di Berlino, nel ‘33, a causa delle sue origini ebraiche, è costretto a scappare dalla Germania e rifugiarsi a Parigi. Qui assume il nome Robert Capa ed inizia la sua carriera di fotografo, prima come assistente di laboratorio e poi come fotografo freelance. Diventa, così, il primo e più famoso fotografo di guerra, documenta cinque diversi conflitti: la guerra civile spagnola, la seconda guerra sino-giapponese, la seconda guerra mondiale, la guerra arabo-israeliana e la prima guerra d’Indocina.
La svolta della sua carriera, avviene, però, durante la guerra civile spagnola, con la sua foto più famosa: Il miliziano colpito a morte. La foto fece molto discutere e, nonostante ci fu chi sostenne che la foto fosse stata preparata ad arte, egli ribadì sempre di aver scattato la foto mentre si trovava in trincea, in Andalusia, con venti soldati repubblicani. Aveva, infatti, posizionato la macchina fotografica sopra la testa ed aveva scattato la foto ad un soldato che si muoveva sopra la trincea, spedendo poi il rullino in Francia. Solo tre mesi dopo, di ritorno dalla Spagna, scoprì di essere diventato famoso per aver fotografato un uomo nel momento in cui lo uccidevano. Memorabili sono anche le foto famose con cui documentò la seconda guerra mondiale, immortalando i militari americani in Sicilia e lo sbarco in Normandia.
Finita la guerra, decide, poi, di prestare il suo talento al cinema e ritrarre attori ed artisti, documentando la loro opulenta vita. Nel ‘36 gira, infatti, alcune sequenze per il montaggio del film Spagna 36 e, nel ‘46, grazie alla sua relazione con l’attrice Ingrid Bergman, scatta alcune foto sul set del film Notorious di Alfred Hitchcock.
La sua è stata una vita spericolata, popolata da donne, alcol ed incuranza per il pericolo. Forse, per sfuggire alla sofferenza, alla miseria ed al caos che con le sue foto aveva documentato, sfidando la morte, pur di raccontare la guerra. Sempre alla ricerca disperata di stare dentro le cose efotografarle dal punto di vista più vicino possibile, limitando al minimo i filtri e le barriere tra fotografo e soggetto, come la sua storica compagna Gerda Taro, muore facendo il suo lavoro, calpestando una mina nel 1954, durante la guerra del Vietnam. Prima, però, nel ‘47 assieme a Henri Cartier-Bresson, David Seymour, Georges Rodger e William Vandivert fondal’agenzia fotografica Magnum Photos.
Eliott Erwitt
Ebreo di origini russe, nasce a Parigi nel 1928, ma trascorre l’infanzia a Milano, finché, nel ‘39, a causa del fascismo, la sua famiglia è costretta a rifugiarsi negli Usa. Trascorre, così, l’adolescenza ad Hollywood, lavorando nella camera oscura di uno studio fotografico ed iscrivendosi, poi, ad un corso di fotografia al Los Angeles City College. Nel ‘48 studia cinema alla New School of Social Research di New York, mentre nel ‘49 viaggia fotografando Italia e Francia con la sua fedele Rolleiflex. È, però, nel ‘53 quando conosce a New York Robert Capa, Edward Steichen e Roy Stryker che la sua carriera di fotografo fa un salto di qualità: Stryker lo assume alla Standard Oil Company per realizzare un libro fotografico e un reportage sulla città di Pittsburgh ed entra a far parte della Magnum, collaborando come freelance per importanti riviste come Life. Presidente della Magnum per tre anni, alla fine degli anni ‘60, dagli anni ‘70 in poi si dedica al cinema, realizzando documentari e commedie.
Sue alcune delle immagini più importanti fissate nella memoria collettiva mondiale: la foto di Jacqueline Kennedy al funerale del marito, quella di Nixon che punta il dito sul petto di Nikita Kruscev, i ritratti di Che Guevara e quelli di Marylin Monroe. La sua fotografia, però, è famosa per l’umorismo e la grande ironia con cui ha raccontato le assurdità della nostra società, riuscendo a cogliere, nel quotidiano, accostamenti paradossali che mostrano l’arroganza, le ansie e gli aspetti più frivoli della società moderna. Per far ciò si è servito di cani, che sono uno dei suoi soggetti preferiti perché con la loro spontaneità e sfacciataggine, sono il perfetto contraltare dei loro padroni così controllati e costruiti.
Altro tema che si può rintracciare nelle sue opere, è quello razziale, affrontato, ancora una volta, con il sorriso, anche quando raffigura una realtà amara.
Sebastiao Salgado
Brasiliano, classe 1944, dopo gli studi di economia, prima in Brasile poi in Francia, negli anni ’70 si appassiona alla fotografia. Da allora, grazie ad essa, è riuscito a documentare come i cambiamenti ambientali, economici e politici abbiano condizionato l’umanità. Tutto ha inizio durante alcuni suoi viaggi di lavoro per l’Organizzazione Mondiale del Caffè. In quell’occasione, conosce l’Africa, se ne innamora e capisce che per trovare soluzioni ai problemi del Terzo mondo, bisogna testimoniarli, ed il miglior modo per farlo è la fotografia. Così, nel ‘73, lascia il lavoro ed inizia un viaggio di tre anni in cui gira e fotografa tutta l’Africa. Non vuole, però, raccontare l’attualità immediata delle cose, ma la persistenza di situazioni critiche o peculiari. Racconta, dunque, il sottosviluppo, la siccità, la deforestazione. Racconta, soprattutto, di donne e uomini a cui è negata un’istruzione e che lavorano tante ore al giorno, restando, però, poveri, denutriti e senza assistenza. Da economista, ha, infatti, studiato l’Africa ed i meccanismi che hanno generato questi squilibri e decide, per questo, di raccontare i lavoratori e la loro dignità. Fotografa, dunque, non povertà e disperazione, ma la dignità delle persone. Di esse ne traccia veri e propri ritratti, sempre con rispetto e raccontandone la storia. Mosso più da un senso di responsabilità che dall’estetica, la macchina fotografica è per lui non un mezzo con cui fare arte, ma con cui comunicare sé, il proprio stile, le proprie origini, il mondo e le persone.
Così, nei primi anni ’90 inizia un viaggio di sette anni con cui da vita al progetto In cammino che lo porterà a visitare quaranta paesi e testimoniare gli esodi che affliggono il pianeta e molti dei più importanti conflitti del tempo. Di questi anni è la sua opera più famosa, il reportage La mano dell’uomo: un importante progetto sull’uomo e sul lavoro, una delle più importanti opere fotografiche del dopoguerra. Nonostante i 20 anni di carriera, quest’esperienza, però, si rivelerà traumatizzante.
A metà degli anni ‘90, profondamente toccato dalla crudezza delle scene viste durante il genocidio in Ruanda, Salgado, perde la fede nell’uomo e nel mondo e abbandona la fotografia. Ritorna, dunque, in Brasile e decide di dedicarsi ad un importante progetto ambientale, attraverso un’opera di riforestazione che, non solo, lo porterà a piantare più di due milioni di alberi, ma anche a ridare vita ad un ecosistema ormai scomparso.
Deciso, ora a salvare il pianeta, riprende in mano la macchina fotografica e viaggia per il mondo, alla ricerca dei luoghi intaccati dall’uomo. Sposta, dunque, il suo obiettivo di fotografo sulle tematiche ambientali, e lavora al progetto Genesis con cui fa un enorme omaggio al pianeta Terra, rappresentando animali e paesaggi non contaminati dal progresso umano. Questa grande svolta nella sua carriera, è raccontata nel bellissimo film-documentario Il sale della Terra, di Wim Wenders.
Steve McCurry
Membro della Magnum e autore della copertina più famosa del National Geographic (ragazza afghana), si laurea nel ‘74 in Cinematografia all’Università della Pennsilvanya e lavora, poi, come fotografo freelance dalla fine degli anni ’70. La sua fotografia è un perfetto mix fra reportage, fotografia di viaggio ed indagine sociale, tanto che le sue foto sono state pubblicate sia sul National Geographic, sia in numerose riviste di tutto il mondo. Conosciuti sono soprattutto i suoi reportage su India ed Afghanistan, ed è proprio in quest’ultimo Paese che nel ’79, avviene l’episodio più importante nella sua carriera: fa un fotoreportage sulle zone afghane controllate dai mujahiddin, prima dell’invasione russa. McCurry è stato uno dei primi a raccontare l’India e l’Asia attraverso la fotografia a colori, rendendo giustizia, attraverso un’infinita varietà di cromatismi e contrasti, agli odori e ai sapori di quelle terre. Frutto di una scrupolosa ricerca, di lunghissimi viaggi e di attesa nella ricerca del momento perfetto, la fotografia di McCurry è universalmente apprezzata per bellezza ed umanità.
Come in una sorta di paradosso, le sue foto sono tecnicamente perfette, serene e caratterizzate da potenza e vivacità del colore, anche quando parlano di povertà, sradicamento, fame e disperazione. La sua è una fotografia antropologica che parla di cultura, religione e tradizioni e trasmette il suo bisogno di immergersi completamente nella realtà che vuole rappresentare, rivolgendo soprattutto la propria attenzione all’essere umano e alla condizione umana. Cercal’anima più genuina dei soggetti, per trasmettere il senso viscerale della bellezza e della meraviglia che ho trovato di fronte a sé, durante i suoi viaggi, quando la sorpresa dell’essere estraneo si mescolava alla gioia della familiarità.
Fonti consultate
Henry Cartier- Bresson, grandi-fotografi.com;
Robert Capa, grandi-fotografi.com;
Elliot Erwitt , grandi-fotografi.com;
Sebastiao Salgado, grandi-fotografi.com;
Steve McCurry, grandi- fotografi.com;
Valentina Zanzottera, I 10 fotografi più famosi di tutti i tempi, reflex-mania.com;
30 fotografi più famosi della storia, fotografiamoderna.it.