Non troppi anni fa – mi ero da poco trasferita in UK -, spinta forse da una lieve nostalgia di casa, iniziai a fare delle ricerche sul siciliano, sui modi di dire siciliani, sull’origine di alcune parole. Mancu li cani (trad. Nemmeno i cani – col significato di ‘Nemmeno per sogno’) direbbero nella mia città natale – niente, non trovavo niente di soddisfacente.
Ad un certo punto ecco che vedo apparire tra le mie ricerche la Cademia siciliana – e che è?, ho pensato subito mentre ne spulciavo i contenuti: tra il dire il fare c’era di mezzo solo un click; mandai un messaggio alla pagina Facebook dell’associazione e detto-fatto. Mi rispose un certo Salvatore Baiamonte – l’intervistato -, e da allora io sono stata la più scansafatiche delle leve e delle allieve, ma la Cademia siciliana ha nel frattempo raggiunto diversi traguardi grazie soprattutto ai suoi membri fondatori e ai suoi instancabili collaboratori.
Oggi vi racconto la storia della Cademia e la stimolante chiacchierata che ho fatto con uno dei suoi fondatori.
Salvatore Baiamonte è palermitano, laureato all’Università di Bologna e dottore magistrale in Scienze Linguistiche. Ha ideato e fondato nel dicembre del 2016 la Cademia siciliana, di cui è co-responsabile e presidente insieme a Paul Rausch e David Paleino.
Nina: Cominciamo dal principio… da dove e come nasce l’idea della Cademia siciliana?
Salvatore: Già da quando ero ragazzino ho sempre avuto questa voglia di cercare l’origine parole, mi interrogavo un po’ sulle forme del siciliano, coniugavo i verbi. Poi è successo che nel 2014 ho avviato il mio primo progetto – una paginetta che poi è diventata un ginepraio di piccoli progetti incompiuti -, e si chiamava Nzignàmunni u sicilianu (ndr ‘impariamo il siciliano’), per iniziare a parlare di siciliano. Avevo anche avviato una petizione su Change.org – quelle cose da ragazzini – per istituzionalizzare il siciliano (che, devo dire, non andò poi così male – su 5000 firme necessarie, ne avevo raccolte oltre 3000). Siccome, però, volevo fare anche audience, pubblicavo i contenuti a manetta nei gruppi di “siciliano” in giro per il web; ed è in questa circostanza che ho trovato una piccola community di siculo-americani che condivideva post e informazioni e ricette – un po’ quei cliché comuni sulla Sicilia.
N: Pizza mafia e mandolino!
S: Esattamente! Tramite questo gruppo, però, conosco Paul Rausch e lui aveva studiato tematiche simili alle mie. Parte della sua famiglia è di origine siciliana, la restante parte invece di origini irlandesi, tutti però emigrati negli Stati Uniti. Qui nasce l’idea di mettere in piedi l’associazione – partivamo dalla considerazione che le lingue in difficoltà per cercare di resistere hanno bisogno di qualcuno che le sostenga e che dia loro una direzione. Di altre entità notevoli che si occupano di siciliano, c’è solo il Centro di studi filologici di Palermo. Trattandosi, però, di una realtà istituzionalizzata, lo studio del siciliano viene concepito in tutt’altra maniera, ad un livello più di documentazione.
N: Non trattano dunque la lingua siciliana come una lingua viva.
S: Sì, si occupano di dialettologia nel significato classico – si occupano del siciliano come di una realtà esistente, ma non organizzano di fatto una pianificazione linguistica.
N: Hai finora fatto riferimento al siciliano come ad una lingua e non un dialetto. Anzitutto, qual è, se c’è, la differenza tra lingua e dialetto? E perché il siciliano è una lingua a tutti gli effetti e non un ‘dialetto’?
S: Qui ci addentriamo in un argomento un po’ spinoso. Iniziamo dicendo che, per fortuna o purtroppo, di queste due etichette non esiste una definizione univoca – alla fine, ogni Paese o ogni macroarea costruisce dei propri modelli di riferimento, e decide di privilegiare una certa visione rispetto ad un’altra. In Italia, la visione privilegiata è quella della sociolinguistica.
La sociolinguistica parte da questo ragionamento: nella coscienza delle persone ci sono cose che vengono identificate come lingua, perché c’è dietro una tradizione letteraria, una tradizione di canonizzazione, e cose che vengono identificate come dialetto, perché non hanno alle spalle tutto questo. Io trovo che sia un po’ incoerente.
N: Si potrebbe dire che il dialetto viene inserito in questa non-categoria perché ce lo si figura come facente parte della tradizione popolare, quindi non canonica, quindi non ufficiale?
S: Sì, è molto complesso da spiegare. Intanto, la sociolinguistica non nasce in Italia, ma negli Stati Uniti. Quindi, già la terminologia utilizzata – pensata e nata in lingua inglese – per fare riferimento ai fenomeni ha di fatto sfumature differenti. Per esempio, in inglese la parola dialect si riferisce alla varietà linguistica. In Italia, la situazione è un po’ diversa anche per ragioni di tipo politico. Dall’Unità d’Italia è stato preso come modello dello stato quello della Francia rivoluzionaria, quindi: uno Stato un popolo una lingua.
Spesso si dice il dialetto non ha una grammatica – è una sciocchezza. La grammatica è l’insieme delle regole che governano il funzionamento della varietà: come fanno un palermitano e un messinese a comunicare se non hanno un fondo di regole comuni a cui fare riferimento?
C’è dietro tanta politica e per questo ci sono dietro tante incongruenze. Noi seguiamo un modello classificatorio un po’ più coerente, quindi affibbiamo l’etichetta dialetto alla varietà geografica e quella di lingua all’insieme delle varietà molto simili perché hanno alla base un fondo comune.
N: Di conseguenza, in base a quello che hai appena detto, dire ‘lingua siciliana’ ha anche una valenza politica.
S: Sì, ma è una valenza che cerchiamo di non dargli. Cerchiamo di muoverci solo sul piano scientifico. Non si può, certo, negare che ne abbia. Ma questo di non fare politica è un impegno che ci siamo imposti fin dall’inizio.
Se la linguistica vuole essere scienza – penso di poter dire che tra le scienze sociali, sia anche quella che si avvicina di più alle scienze naturali (studiare linguistica significa anche conoscere il corpo, conoscere la mente) – deve cercare una sua compattezza come ce l’hanno la chimica, la fisica.
N: Entriamo allora nello specifico e nello scientifico: quante varietà di siciliano esistono? Quant’è difficile capire qual è la lingua siciliana d’insieme?
S: Questa è una domanda difficile a cui rispondere. Iniziamo dicendo che le varietà di siciliano sono tante quante i centri abitati. Si possono accorpare in gruppi. Noi facciamo pianificazione linguistica, che significa voler cercare di dirigere le sorti di una lingua. Molti spesso ci chiedono quale siciliano? il palermitano? l’agrigentino? – questa è una domanda che non ha senso. Non c’è una varietà linguistica più siciliana di un’altra. Sarebbe come chiedersi qual è l’italiano? quello di Roma perché è la capitale politica? o quello di Milano che è la capitale economica?
N: Ma se voi dovete scegliere la grafia da adottare di una parola – prendiamo per assurdo la parola ‘io’, che già, per esempio, nella provincia messinese si dice almeno in tre modi differenti, sulla base di cosa scegliete?
S: Il siciliano ha delle sue caratteristiche che lo diversificano dalle altre parlate. Quando si pensa alla standardizzazione si hanno in mente modelli molto rigidi – il francese per esempio è modellato sul franciano, che era la varietà parlata a Parigi, e tutto ciò che non era franciano veniva escluso dalla selezione. Questo è il modello ripreso dalla maggioranza delle lingue romanze.
Ponevi il problema della parola io: in realtà, ci sono due gruppi di forme in siciliano. Delle forme ereditate dal latino come eu, jeu che si usano nell’area tra Messina e Reggio Calabria, e poi ci sono quelle forme tratte direttamente dall’italiano come il palermitano iu o il catanese ju. Se noi consideriamo che il siciliano ha delle sue regole fonetiche precise, non importa la grafia della parola io, ciò che importa è cercare di rimanere conformi alle peculiarità del siciliano per evitare di snaturarlo ed avere sempre e mantenere una visione complessiva.
N: Ritieni che il siciliano possa essere insegnato a scuola? Pensi che la lingua siciliana dovrebbe essere inserita nei programmi scolastici delle scuole siciliane? O il fatto che non sia di fatto una lingua nazionale può frenare le istituzioni?
S: Tendenzialmente, tutti possono imparare qualunque lingua. Ciò che conta è che venga costruito un progetto di apprendimento da dei glottodidatti di professione.
Certamente, la globalizzazione fa in modo che tutte le lingue che non sono veicolate dalle istituzioni siano di fatto lingue vulnerabili. In Italia, ci sono casi più crtitici come l’emiliano-romagnolo, che è una lingua quasi morta. Le generazioni degli anni ‘90 sono ancora in grado di capirlo, ma non di parlarlo. Lingue come il veneto o il siciliano sono estremamente più fortunate. Tutte le lingue sono vulnerabili, dipende anche da fattori storici, culturali, sociali quanto una lingua riesce a resistere all’assorbimento. Io, naturalmente, sono a favore di certe iniziative. La gente pensa non si può insegnare il dialetto, cosa insegnamo ai ragazzi? – argomento assolutamente fantoccio. Bisognerebbe realizzare un progetto glottodidattico che preveda l’insegnamento del dialetto locale. In Sicilia, per esempio, abbiamo il vantaggio che la composizione delle classi è un fattore a due parametri e non a tre.
N: spiegati meglio. Di che parametri si tratta?
S: La composizione umana di una classe è fatta in generale di ragazzi siciliani e di ragazzi stranieri – è raro trovare ragazzi che vengano dalla Lombardia o dal Veneto che complicherebbe effettivamente la situazione. Quindi, ci sono una serie fattori che renderebbero fattibile un progetto didattico. Ma purtroppo esistono tanti luoghi comuni come per esempio quello della pronuncia standard – nessuno a scuola impara la pronuncia standard.
N: La scuola, tra l’altro, ha avuto un ruolo fondamentale negli anni ‘50 per estirpare i dialetti dalle scuole.
S: Sì, anche se dall’Unità d’Italia in poi, in verità, il dialetto era molto presente a scuola. Anche perché gli insegnanti dovevano insegnare l’italiano e avevano necessità di usare la lingua materna dei ragazzi per veicolare i canoni della nuova lingua che era di fatto una lingua straniera, che si imparava sui libri. La rivoluzione si è avuta con la televisione e con la radio, che hanno praticamente sovvertito una situazione linguistica che era uguale da dieci secoli. Negli anni ‘50/’60 il corpo docenti, in maniera compatta, decise di estirpare il dialetto dalle scuole, cosa che ha provocato non poche situazioni di disagio linguistico e sociale.
N: Ritieni che le istituzioni nazionali, regionali siano pronte per questo passo? S: Assolutamente, no. Non c’è neanche la volontà. Tutto è complicato dalla situazione legislativa nazionale. Per fare una cosa del genere, il siciliano dovrebbe essere inserito nella famosa legge 482 del 1999, vale a dire la legge che tutela alcune minoranze linguistiche. Il problema è che la Corte Cotituzionale non ritiene che il siciliano sia da inserire in tale minoranza. Un esempio su tutti è il caso del piemontese: la regione Piemonte, pochi anni dopo l’approvazione della legge, aveva tentato di tutelare la lingua piemontese come lingua minoritaria, ma non vi riuscì; la Cassazione considera come lingue minoritarie solo le lingue che non si sono sviluppate in Italia e che sono presenti sul territorio italiano solo da un certo periodo di tempo. Tutte le altre vengono considerate come una sottospecie di italiano regionale. Ma di fatto l’inserimento di una lingua tra quelle menzionate nella legge non dà alcuna garanzia alla lingua stessa: sono trascorsi oltre vent’anni dall’approvazione, e il sardo, ad esempio, pur essendo tra queste, ha visto la sua situazione ampiamente peggiorata.
N: Tornando alla Cademia siciliana, nel contesto di riqualificazione linguistica, qual è il vostro programma? A cosa state lavorando?
S: Al momento stiamo lavorando alla seconda edizione della standardizzazione ortografica, che segue il primo modello che avevamo proposto nel 2017. Questo lavoro è necessario, perché la lingua, sì, nasce come vettore orale, ma alla scrittura si attribuisce un’autorità sociale. Non è semplice fare dei progetti a lungo termine. La pandemia, ad esempio, ha dato una mazzata tremenda alle lingue minoritarie: ci ha portato via una gran quantità di anziani, di fatto una quantità di parlanti competenti a cui poter fare riferimento.
Un altro progetto a cui stiamo dando avvio, è il dizionario standard, che sarà un lavoro molto lungo, solo in digitale, con registrazioni audio di pronucie di differenti varietà, e soprattuto sarà monolingue siciliano, perché riteniamo che stimoli l’apprendimento – caposaldo della nostra politica. Dovrebbe essere un’opera innovativa, speriamo di fare un salto di qualità a livello di lessicografia e ci si occuperà anche della varietà del reggino.
N: Ti riferisci alla lingua parlata a Reggio Calabria? Fa parte dei dialetti siciliani, davvero?
S: Sì, assolutamente, il reggino vale come dialetto del siciliano, perché lo Stretto di Messina non è assolutamente un confine linguistico. Anzi, ti dirò, paradossalmente, ci sono meno differenze tra palermitano e reggino che tra palermitano e trapanese. L’area di Reggio Calabria parla siciliano.
N: Tra i traguardi che avete già raggiunto invece… quella storia di Google?S: Sì, abbiamo fatto Woolaroo con Google. Il siciliano è una delle dieci lingue pilota del progetto. Woolaroo è un’applicazione con tecnologia di machine learning, ed è pensato così: inquadri un oggetto con lo smartphone, l’algoritmo riconosce l’oggetto e riproduce una registrazione vocale della parola e te la presenta scritta in corretta ortografia siciliana. Stiamo lavorando ancora alla traduzione di Telegram e anche alla traduzione di Minecraft, un videogioco open world molto famoso. Tramite la traduzione anche di parole semplici, abbiamo la possibilità di sviluppare dalle basi una tecnica di apprendimento.
N: Mi rendo conto solo adesso, dopo tutto questo parlare, che non abbiamo ancora detto chi sono gli altri fondamentali membri della Cademia.
S: Giusto! Allora, i numeri delle persone variano continuamente. C’è un gruppo di persone stabile, tra cui oltre me David Paleino, che è presidente con Paul Rausch della sede italiana, mentre io sono presidente della sede americana sempre con Paul. Tra i contributori più attivi del gruppo-base, c’è Gaetano Mazza, di Messina, ma anche Antonino Di Matteo, che si occupa principalmente dell’aspetto grafico, Michelangelo Privitera, che ha interessi di ambito politico-economico.
N: Tornando un attimo al progetto-dizionario… Come funziona? Sai, è una di quelle cose che si danno per scontate, che le si trova bell’e fatte, pronte da consultare, e non si immagina minimamente il lavoro di raccolta e compilazione che c’è dietro. Quali sono i vostri riferimenti? Letterari? Umani?
S: Non vuole essere un dizionario monologico. Ci sarà una sezione dedicata agli utenti, dove potranno comunicarci se manca qualche parola e poi valutare se inserirla o meno. L’opera più importante a riguardo è Il vocabolario siciliano di Piccitto e Tropea, pubblicato tra il ‘77 e il 2005. Un mostro di vocabolario. Ma non raccoglie poi tutte quelle innovazioni del mondo tecnologizzato. Banalmente, la parola lavatrice, in siciliano, si dice almeno in tre modi diversi: a lavatrici – a lavarobbi – a lavavistita.
Un altro settore interessante sarebbe quello del lavoro in fabbrica: una cosa che pochissimi sanno, è che nelle zone in cui si parlano di più i dialetti, spesso si produce un lessico tecnico dell’ambito della fabbrica, che mostra quanto i dialetti di fatto siano dinamici. C’è un altro progetto di cui non ho ancora parlato: l’atlante toponomastico, che nella prima fase mirerà a raccogliere i nomi di comuni, poi ci muoveremo per ampliarlo con i nomi delle frazioni, dei quartieri. Così da creare proprio un atlante completo che eventualmente, poi, la pubblica amministrazione potrebbe utilizzare per fare cartellonistica.
N: Se qualcuno volesse fare parte del progetto-Cademia siciliana, cosa deve aspettarsi? Come li istruite gli eventuali adepti?
S: Noi abbiamo la nostra piattaforma di apprendimento, in cui ci sono alcuni corsi. Sostanzialmente ricevono una preparazione di base sul siciliano, proprio a livello linguistico, e poi vengono affiancati dai nostri volontari che fanno da tutor per imparare soprattutto a scrivere tramite traduzioni, esercizi. E dopo correggiamo insieme, si lavora insieme. Inoltre, cerchiamo di fare una formazione a 360° che comprenda anche le linee teoriche dei problemi linguistici, geografici e sociolinguistici: fondamentale per il nostro ruolo di divulgatori.
N: Perché, secondo te, nel 2022 è importante preservare la conoscenza della lingua siciliana?
S: Questa è una domanda non banale. Da una parte, si può dire che quella di preservare il siciliano è una scelta che hanno fatto gli stessi parlanti. A questo si aggiungono motivazioni di natura scientifica. Ma soprattutto ci sono motivi legati all’ambiente: una corretta gestione ambientale richiede una buona conoscenza delle lingue locali, perché queste raccolgono secoli e secoli di conoscenza sul territorio. Nel momento in cui la lingua viene a morire, noi non abbiamo più strumenti adatti per la gestione del territorio.
N: A chi volesse approcciarsi alla lingua siciliana, consigliaci un libro e un film, dai!
S: Come film degli ultimi anni, direi assolutamente Baarìa, è strutturato molto bene, perché è anche stratificato nel tempo, per cui si sente un dialetto più arcaico all’inizio del film e poi uno un po’ più moderno quando ci si sposta verso gli anni ‘60. Per quanto riguarda i libri, se uno vuole leggere qualcosa di abbastanza approfondito, sicuramente i lavori prodotti dal Centro di studi filologici sono una buona risorsa. Poi, però, se qualcuno vuole, ci sono anche i nostri contenuti su cademiasiciliana.org !
N: Bene! Grazie allora per questi ultimi consigli e per la stimolante chiacchierata! Salutamu!