Ce lo ricordiamo tutti quel trauma infinito chiamato diamonica che ha finito per affliggere l’era delle elementari tutti i giovinastri della mia generazione? Che – ad un certo punto della sua misera esistenza – emetteva suoni acquatici che avrebbero potuto riecheggiare in un sommergibile ed invece stavano lì, incastonati in quello strumento del demonio a memento di paludi di bava annidate al suo interno che levavi solo sventolandolo per aria e disperdendo su banchi e compagni di classe l’infame secrezione orale. Affari che andrebbero tenuti privati, assieme all’esecuzione dell’Inno alla Gioia della Nona Sinfonia di Beethoven o Calabrisella mia che mi hanno accompagnato per tutto il periodo delle scuole elementari. Di che gioia parlavi, Beethoven?
Credo sia stato quello l’esatto momento in cui ho sviluppato la fobia della saliva.
Le medie, scandite da cambi ormonali e dall’insegnante di musica che avrei scoperto solo in seguito essere una mia lontana cugina. Un legame di sangue che a quanto pare non è stato sufficiente a sollevarmi dal disagio del primissimo giorno di lezione: la sfortuna volle che fossi timida oltre che primo nome del registro, una di quelle combinazioni fatali che mi portò ad essere chiamata alla cattedra per dimostrare che rapporto avessi con la musica (nella peggiore maniera possibile).
[SPOILER: un rapporto di merda.]
Lei, con un biondo fungo atomico accampato sulla testa e con lo sguardo strabico accuratamente concentrato sui tasti di una pianola (giuro di non voler essere blasfema, era esattamente quello strumento!) mi fece cantare La Canzone di Marinella di De André ponendo una croce definitiva sul mio senso d’introversione e riempiendo il mio cuore di rancore e astio nei confronti dello stesso cantautore.
Vorrei poter dire che di questi anni di musica scolastica ho anche dei bei ricordi. Invece no. Ricordo solo che era una di quelle materie un po’ ‘meh‘ che, al pari dell’educazione fisica, venivano prese a caciara. La mia salvezza è stata avere mio padre che, nonostante tutto, ha avuto la caparbietà di trasmettermi il suo amore per la musica, che di lì a poco avrei affrontato come autodidatta e subito dopo iscrivendomi ad una scuola privata per imparare la batteria e poi al conservatorio, con il grande desiderio d’insegnare musica.
Dal mio vissuto, ho sviluppato la teoria che ci sia un problema alla base. Perlomeno, uno dei tanti, e plausibilmente di natura relazionale:
Insegnante → materia
che si traduce presto nella questione
Insegnante → alunni
Il docente di un tempo era plasmato in maniera meravigliosamente rigorosa, con alle spalle studi conservatoriali di tutto rispetto ma – forse – troppo mentalmente improntato all’estremismo tecnico. Il che non deve necessariamente costituire un difetto, a patto che si capisca come utilizzare al meglio gli strumenti di cui si dispone e a non rimanere intrappolati all’interno di una struttura.
Oggi più che mai, il docente pare essere uno degli scogli principali del sistema scolastico.
Come prima cosa, vorrei sfatare il mito che l’insegnamento sia una missione perché, tanto per cominciare, non se ne può più e soprattutto perché si tratta di un paragone barbaro che associo agli evangelizzatori alla Ned Flanders che venivano spediti per direttissima nelle zone più scordate del pianeta per impartire i precetti cristiani, spesso attingendo alla violenza ed in ogni caso con il brutale intento di sradicare secoli di preesistenti dogmatismi culturali e religiosi, snaturando quei poveri indigeni che si vedevano privati della loro identità. Un’azione di una prepotenza ideologica senza precedenti, che crea sofferenza anche quando viene posta in un contesto scolastico nel quale si dovrebbe essere all’altezza di fare trasmissione del sapere, non brain washing.
Che poi diciamolo, si fa un gran parlare di come dovrebbe essere il docente modello, delle sue caratteristiche e peculiarità, di questo e di quest’altro come se si stesse studiando un animale rinchiuso in uno zoo (altra immagine agghiacciante) e di quanto sia necessario che ci si approcci alla musica nella maniera giusta già da quando si è piccini.
Mi verrebbe però da chiedermi come un ragazzino possa avvicinarsi alla musica – come anche ad altre materie – quando si ritrova in cattedra il delirio cosmico di un insegnante che non sempre ha l’abilità di ricoprire quel ruolo.
Una larga fetta dei colleghi che ho incontrato e sto incontrando nel mio percorso non riesce a processare anche solo a livello basilare le informazioni che legge, figuriamoci a trasmetterle! Nella maggioranza dei casi, si parla di soggetti incapaci di scrivere correttamente nella propria lingua o di costruire una frase – seppur breve – che abbia un senso compiuto. Che di per sé non sarebbe un grattacapo se poi questi stessi soggetti non ricoprissero il ruolo di dispensatori di conoscenza, oltre a percepire uno stipendio per farlo.
Qualcuno direbbe “Beh, insegnano musica, mica astrofisica!”… beh, e sticazzi?
Stiamo formando dei giovani. Sì, ma come lo stiamo facendo?
Mi chiedo, a tal proposito, perché a certi soggetti sia affibbiato un compito così delicato e rilevante come quello di plasmare le menti dei giovani?
Dove sono gli insegnanti che sanno che cazzo è successo dal 1876 ad oggi? Fatemele vedere, ‘ste chimere!
Perché in tutta franchezza non mi rappresenta un piffero che mi sappiano solfeggiare in un batter di ciglia l’intera opera del Pozzoli, cos’abbiano detto Orff e Dalcroze riguardo le metodologie della didattica musicale o Gordon sul ruolo della relazione insegante-studente nell’insegnamento efficace se – ancor prima dei loro alunni – sono loro a mostrare tutta una serie di lacune raggelanti e il massimo del modernismo che riescono a toccare è rappresentato da quella lamentevole cantilena natalizia di Mariah Carey.
Pietà, vi supplico.
Certo è che le linee guida ministeriali non siano di grande aiuto, con un’offerta formativa improntata prevalentemente (o quasi unicamente) sul classicismo, opere e operette, canti gregoriani… tutto doveroso, è la nostra storia il nostro patrimonio e le nostre radici. Tutto da preservare, ma non unica e sola verità.
Ed è come se non si tenesse in considerazione l’evoluzione della musica, nel bene e nel male perché sì, è giusto analizzare anche gli aspetti meno pregiati.
Quindi bellissimo il flautino, la diamonica, le maracas e l’avvilente triangolo mollato al bambino che ci si secca di instradare o di curare.
[Ci hanno provato pure con me e ne sono uscita fuori batterista, TIÈ ! ]
In quel triangolo, nella poca voglia dell’insegnante di dedicarsi al ragazzo che reputa poco dotato, si cela la morte della didattica musicale come della stessa musica, e forse è anche un po’ l’emblema del sistema scolastico del nostro Paese.
È di vitale importanza aggiornare i programmi ministeriali che probabilmente farebbero ghiacciare anche il buon M.o Verdi, o sarebbe gradito l’ausilio degli insegnanti (ove in possesso di adeguata preparazione) per l’inclusione di tutti quei generi musicali che non si sa bene per quale motivo vengano giudicati minori in ambito scolastico e ritenuti generi non colti.
Rendersi conto che esiste anche altro e che serva stabilire anche un legame che sfugga dal gap generazionale con gli alunni.
Perché per quanto studiare Monteverdi e Palestrina sia formativo, può diventare una mattonata alle gonadi per qualsiasi ragazzino di scuola media se glielo si propina fino alla nausea e forse – e dico, forse – sarebbe più proficuo valutare questa forma d’inclusione anche per motivarli, a ‘sti ragazzetti, anziché anziché affliggerli e scacciarli via.
Ciò non sta a significare che l’insegnamento musicale debba trascurare i punti basilari della materia; ma è pur vero che ignorare la presenza di generi come il pop (non Mariah Carey!), il rock, il metal, il punk, il grunge, l’hip-hop e sì – piangete tutti quanti– perfino la trap influisca tanto nel rapporto con l’alunno quanto in quello che abbiamo con il Pianeta Realtà: esistono, che vi piacciano o meno. E non devono piacervi per forza.
E basta anche con la manfrina del “Le ore a disposizione sono quelle“.
“Per giudicare un uomo, bisogna almeno conoscere il segreto del suo pensiero, delle sue sventure, delle sue emozioni.”
Diceva bene, Honorè de Balzac.
Date spazio ai ragazzi di raccontarsi, fatevi dire per quale motivo ascoltino quei generi che tanto vi fanno orrore, rispettate le loro inclinazioni individuali, magari cogliete al volo l’escamotage per introdurre loro generi fondamentali, quello che vi piace e che ritenete importante che approfondiscano… i Beatles? Vada per loro, piacciono tanto anche a me!
[A parte che le strutture armoniche presenti in gran parte della loro produzione fanno salire i brividi, per quanto sono spaventosamente complesse!]
Probabilmente in quella musica che si sparano di continuo in cuffia avvertono la loro raison d’être, ci si rispecchiano. Chiediamo loro il motivo.
E lasciamo loro, una volta per tutte, la libertà di scegliere in assoluta autonomia cosa ascoltare.
Quella stessa libertà di ascoltare il cazzo che ci pareva che abbiamo avuto noi.
Quella che ci permette pure di storcere il naso e additare le nuove generazioni come ascoltatrici di musica mediocre se non insignificante, umiliandoli e denigrandoli per quel disco indecente esattamente come fecero i nonni con i nostri genitori.
Ma una delle prime lezioni che il Rock c’insegna è proprio questa: andare oltre l’aspetto delle cose, avventurarsi, lanciarsi con grinta e lasciarsi trascinare senza pentirsi un singolo secondo.
Open your mind!