Michela Murgia non ha bisogno di presentazioni; i suoi scritti sono stati tradotti e divulgati in svariate lingue, e la sua parabola personale e politica è ben conosciuta. Murgia tuttavia ha ancora qualcosa da dirci, e lo sta facendo tramite una serie di pubblicazioni postume, che racchiudono l’essenza del suo operato e del suo pensiero.
Il testo che segue è tratto dall’ultima pubblicazione postuma, curata da Alessandro Giammei, Ricordatemi come vi pare. In memoria di me, edito da Mondadori. Murgia, visionaria, antifascista, onesta ci racconta la sua visione, stavolta tramite un discorso che tenne davanti alla CGIL nel 2010. Esponente e voce del precariato, che non scende a compromessi con le dinamiche del potere.
[*il titolo è liberamente tratto tra le righe del testo]
Lo confesso proprio qui, come un punto di partenza per riflettere sul futuro: sono stata una lavoratrice precaria troppo a lungo per aver maturato con il sindacato un rapporto di reale fiducia. Gli organi tradizionali di rappresentanza non avevano cittadinanza nelle terre del lavoro invisibile dove camminavamo io e i miei colleghi: erano inesistenti laddove si perpetravano le vessazioni e ci apparivano troppo rigidi nelle strutture e nei metodi per potersi adattare al nostro pericolante equilibrio contrattuale. Noi, che stentavamo persino a confessarci l’un l’altro quanto quel modo di lavorare ci precarizzasse le scelte e i sogni, non avremmo mai concepito per noi stessi una rappresentanza sindacale: sarebbe equivalso a dire che qualcosa non andava, e l’assenza di dissenso era parte non scritta del nostro contratto. Del resto, lamentarsi delle condizioni di un qualunque lavoro nella provincia sarda con i più alti tassi di disoccupazione dell’isola sarebbe sembrato a tutti di cattivo gusto, a prescindere da quanto ci pagassero o ci vessassero, e quindi tacevamo. Al massimo ci licenziavamo, ma senza dire mai il vero motivo. Ognuno di noi aveva la percezione chiara della propria solitudine davanti alla difficoltà, ed era convinto che l’unica mano su cui poteva contare stesse attaccata all’estremità del proprio braccio. Fu una scuola formidabile per apprendere una volta per tutte che l’organizzazione di meccaniche individualiste produce – in maniera automatica e in tempi sorprendentemente brevi – una generazione di individui che si concepiscono come unica misura di se stessi. È sufficiente frantumare i fronti, generare interessi diversi in categorie omogenee, per fare in modo che ogni movimento del sistema produttivo induca le persone a concentrare le forze solo sulla propria sopravvivenza. Una volta normalizzati e resi organici anche gli spazi tradizionali di organizzazione del contrasto, prime tra tutti le forze sindacali, chi si sentirebbe abbastanza eroe da affrontare i mulini a vento? Ed è di eroi che abbiamo bisogno per ottenere quello che avevamo già? Basterebbe essere solidali, ma è raro che nascano solidarietà in mondi come quello in cui stiamo vivendo, che è precario non più solo per i precari; il contratto individuale genera individualisti, persone incapaci di pensare al plurale anche quando sono in gioco beni collettivi, e questo individualismo si allarga ben oltre il contesto strettamente professionale. Noi, privi di una memoria storica sulle lotte sindacali, non avevamo gli strumenti per capire che il call center, con le sue postazioni a isola dove lavorare contemporaneamente non ha mai voluto dire lavorare insieme, era la metafora del nostro modo di stare al mondo: non talenti unici, come volevano farci credere nelle sezioni di formazione motivazionale, ma semplicemente, tragicamente soli. I nuovi contratti hanno generato una mutazione antropologica che prescinde dal lavoro in sé, perché hanno intaccato, prima ancora che i diritti, i livelli di coscienza dei nuovi lavoratori. Per consentire la scomparsa dei diritti per alcuni, c’è voluto l’assenso muto di tutta una generazione di lavoratori garantiti, e da più parti è sorto il dubbio che il sindacato davanti a queste dinamiche abbia buttato a mare la sua parte più socialmente conflittuale per salvare se stesso come organizzazione. L’accordo di Pomigliano ha confermato che questo pensiero non era solo un sospetto, e oggi il timore è che la diga, crepata nella sua colonna portante, ceda rovinosamente lasciandosi a valle molti più sommersi che salvati. Eppure qualcosa da salvare c’è: la mia generazione non ha ancora rinunciato del tutto a cercare interlocutori, a immaginare sostegno nei padri e nei fratelli maggiori, a sognare di poter nuovamente pronunciare la parola ‘noi’ senza sentirci dentro l’eco vuota della retorica. La partita è aperta finché il sindacato sceglie di restare nella storia di questo Paese senza scorciatoie né calcoli di piccolo cabotaggio. Ogni volta che farà gesti coraggiosi troverà al suo fianco anche i nuovi lavoratori, quelli meno garantiti. Ma dovrà essere capace di insegnare loro ancora una volta che gli unici diritti che abbiamo sono quelli che siamo in grado di difendere.