Se i social hanno una qualità, è quella di avvicinare realtà e persone altrimenti distanti. Non troppo tempo fa, mentre vagabondavo su Facebook, mi sono imbattuta in un progetto ‘diverso’, che – c’è da dirlo? – ho trovato immediatamente interessante. Vivere all’estero mi ha un po’ allontanata da alcuni ambienti di casa, ma mai avrei potuto lasciar correre senza indagare, soprattutto perché l’ideatrice e artista è la cara amica Valeria Cariglia. Io e Valeria, che ci crediate o no, abbiamo frequentato la stessa scuola e negli anni ci siamo ritrovate in contesti molto cari ad entrambe.
Ci siamo incontrate di nuovo adesso, dopo anni, in uno dei metaversi offerti da zirmazine: oggi vi racconto di SinMetro, di Vastasa e di tutte le meraviglie contenute nei multiformi universi che è Valeria Cariglia.
Foto in copertina di Dorotea Casabene
Nina: Entriamo subito nel vivo della discussione. Niente preamboli: raccontami tutto. Quando è nato il progetto SinMetro?
Valeria: Maggio. Ho detto al mondo che ho fatto questa cosa a maggio, ma in realtà, il luogo fisico l’ho affittato ad ottobre dell’anno precedente. 2021? Sì, 2021. In realtà a maggio è nata Vastasa, mentre SinMetro sono io e come tale non so definire quando è cominciata la mia attività. Sicuramente è stata per me una necessità: o facevo questo o mandavo curricula a caso. Ad un certo punto, bisogna fuggire. Non sono andata troppo lontano da Messina, però.
N: Ecco, SinMetro si trova a Catania, ma Messina è la tua città natale. Perché Catania?
V: Mi piace tanto Catania. Qui ho vissuto tante esperienze. Ho fatto i miei studi qui, e poi da un certo momento in avanti mi sono ritrovata proprio in un certo mood, quello catanese appunto – i catanesi sono vulcanici, ma rilassati; se ne fottono, ma producono come i pazzi. Il mio compagno è catanese – è una perenne lotta tra il fare i conti e l’inventarsi. Sì, perché puoi anche inventartelo un lavoro. Della catanesità mi piace questo: se non sai come fare, te lo inventi.
N: Quindi, ti sei trovata a pensare al tuo futuro lavorativo e artistico, e anche alla catanesità, cosa è successo poi?
V: In un dato momento, è venuto a mancare mio papà, il mondo del teatro iniziava a starmi stretto. Facevo questa cosa ormai da tanti anni, e mi sono chiesta voglio davvero continuare a farla? Perché non insistere invece su quello che ho sempre coltivato collateralmente? Avevo già avuto modo di lavorare con i pazzerelli, con i bambini per strada. Ad un certo punto, ho messo tutto insieme. Subito ho pensato Basta sentirsi sempre in formazione.
N: Questo è un po’ il guaio del Belpaese. Ti chiederanno sempre qualcosa che non hai; prima o poi, si vuole anche mettere un punto.
V: Questa condizione ti fa sentire sempre in difetto, poi io, di natura, sono un po’ melanconica, mi abbatto facilmente. Quindi, dopo due anni in cui il mio studio si trovava presso la Palestra Lupo, che è uno spazio occupato che tuttora frequento e sostengo, dove mi sono trovata molto bene, ho avuto l’opportunità di avere a disposizione uno spazio gratuito dove poter fare quello che volevo, mi son resa conto che, allo stesso tempo, non mi permetteva di fare un upgrade, qualcosa di mio e basta. E allora ho trovato questa via Vasta…
N: ah! quindi è da qui che viene Vastasa…
V: In realtà, Vastasa è stata una casualità. Con i miei amici (ndr, simula un vocione giudicante) strani, con cui facciamo le cose per strada, è un modo di dire che abbiamo – andiamo a fare vastasate! Per noi, il vastaso non incarna la definizione del dizionario, per noi il vastaso è il monello. Quindi, diciamo che è capitato per caso, non sapevo come chiamare lo studio ed eccoci qua.
N: Raccontaci un po’ questo spazio, faccelo vedere.
V: Come spazio ha due livelli, è tutto molto piccolo, in totale sono 44 mq, però ben distribuiti; c’è una piccola scala che mi permette di appenderci dall’alto cose, quindi al piano di sotto c’è questo spazio espositivo, che io ho allestito come se fosse un piccolo salotto, mentre al piano di sopra, lavoro. Ho tutto un sistema di tavoli divisi per materiale, in uno, ad esempio, c’è il legno, in un altro disegno e incido, in un altro ancora stampo e faccio cavolate con la carta.
N: Lo possiamo definire quindi uno studio di craftwork, di artigianato?
V: Sì, anche se a me non piace molto la parola artigianato, perché immediatamente vieni accostato ai venditori, ai mercatini.
N: Quindi, in un certo qual modo, è come se quella parola depauperasse il tuo lavoro, come se gli togliesse dignità artistica.
V: Sì, cioè mi spiego meglio. Io non produco cose che possono essere vendute, e spero che questo concetto non sia solo nella mia testa. Per esempio, in questo periodo sto incidendo dei timbri da dei miei disegni, che stamperò su pezzi di stoffa, su cose già assemblate da altri – una bag per esempio o degli astucci. In parole povere, io customizzo le cose. Il punto essenziale è che mi piacerebbe spargere i miei disegni, alla mia maniera, senza dovermi troppo uniformare. Io mi sento né illustratrice né artigiana, io mi sento SinMetro.
E finalmente, dopo mesi, me l’hanno chiesto: ma perché ti chiami SinMetro?
N: Ecco, te lo chiedo pure io, allora!
V: Non lo so! Questa cosa è successa a caso, le classiche cose senza misura, senza canone. Senza metro, appunto. Incarna un po’ la mia continua ricerca dell’istante, del momento irripetibile, unico; una ricerca che mi porto dietro da sempre, in tutto quello che faccio.
N: La domanda mi sorge spontanea: questa ricerca guidata dall’istinto ma che nasconde una certa complessità, un pensiero pensato, come l’hanno presa lì a Catania?
V: Finora ho avuto ottimi feedback, c’è curiosità: è come se si aspettassero qualcosa, come se pensassero che qualcosa succederà da un momento all’altro. C’è anche un po’ di incomprensione. Ad esempio, in occasione dell’Open Studio, ci ho tenuto a specificare che non si trattava di un’inaugurazione. L’Open Studio è una cosa che intendo fare ogni volta che avrò qualcosa da mostrare.
N: Quindi il catanese medio come l’ha presa? Cosa credono tu stia facendo?
V: Per prima cosa mi chiedono se è un negozio, che cosa vendo. Per loro, è proprio una questione di istinto, di modo di essere: qualsiasi cosa tu apra, DEVI vendere. Quindi si aspettano che io venda qualcosa, mi chiedono quali siano gli orari di apertura – ovviamente io rispondo mai! Semplicemente perché funziona su appuntamento.
N: Ma parliamo di collaborazioni.
V: Ho ricevuto un sacco di richieste. A Messina per esempio, sono in contatto con Roberta Guarnera. Non so se la conosci.
N: Sì, certo, ci conosciamo da tanti anni, sta facendo un gran lavoro a Messina.
V: Per me, è stata una bella scoperta; è una persona stupenda. Ha un approccio molto interessante, diverso dal mio, ma che mi sembra estremamente utile conoscere. Quando ho bisogno di informazioni tecniche mi confronto spesso con lei. Mi ha lasciato un feedback molto positivo, ha trovato il mio spazio molto accogliente ed avvolgente.
N: Uno spazio che ti abbraccia, insomma.
V: Sì, per me è casa. Roberta mi ha proposto qualcosa, ma ci stiamo ancora lavorando, dobbiamo chiacchierarne ancora. Potrebbe essere qualcosa di site-specific. Io e lei abbiamo già collaborato, abbiamo fatto una mostra insieme, curata da lei e da Mariateresa Zagone, nel 2021. La mostra si chiamava Kaleidoscopica e si è svolta nel suo spazio, Foro G Gallery; è stata una bella esperienza, il fulcro era Messina, il punto di vista era, però, lontano. Cioè, era per noi messinesi che non viviamo a Messina. In occasione di quella mostra, ho fatto un lavoro sullo sguardo sulla città. Il punto è che io non riesco a parlare di Messina in termini visivi. Quindi, ho preso due immagini che sono topiche della città – l’ex inceneritore che c’era a Maregrosso e un palazzo di una via centrale del 1908, un palazzo crollato – le ho incise su dei vetri di grandi finestre, che rappresentavano ai miei occhi la rovina, e queste ne ho aggiunta una terza a simboleggiare la rinascita. Perché penso sempre che, in un modo o nell’altro, Messina ce la farà a rinascere culturalmente.
N: Se non arriva prima il climate change… pardon, ogni tanto viene fuori una vena cinica.
V: (ndr ride e mi dà ragione)
N: Restiamo su quel lavoro, dai.
V: Anche in quella occasione, sono riuscita a mettere in pratica la mia esperienza con le luci e con il teatro, perché il trittico di Finestre erano illuminate da un proiettore teatrale. Sia per quel progetto che per un altro progetto che sto facendo per ora – che si chiama Vastasa Experience, e sarà fatto in collaborazione con airbnb – ho iniziato a collaborare con una fotografa catanese mia amica che si chiama Dorotea Casabene. Lei riesce a guardarmi, che non è proprio una cosa facile. Io mi imbarazzo, ma lei mi coglie.
N: Aspetta, torniamo un attimo su Vastasa. Che cosa vuole ‘sta Vastasa? cosa ci vuole dire?
V: Principalmente, io vorrei riuscire a condensare tutto quello che ho fatto negli anni in questo luogo. Per tanto tempo, io mi sono dedicata alla diffusione dell’arte. Non mi interessa adesso fare dei corsi, fare la maestra d’arte, del resto io sono un’autodidatta, non ho fatto un percorso canonico. Per esempio, ultimamente mi sto cimentando con l’incisione di timbri, e per me è assolutamente una cosa nuova, sto imparando da zero. Qualche anno fa, durante un workshop di Cristiana Piraino alla Palestra Lupo, mi è venuta questa smania di incidere le cose. Lavoro con una gomma polimerica o linoleum, molto facile da incidere e si lavora da positivo e negativo.
N: Cosa ti spinge ad imparare sempre tecniche nuove?
V: Quello che mi interessa alla fine è l’approccio all’arte, che per me deve essere spregiudicato e libero. Non ho paura di un foglio bianco, per me è solo una possibilità. Il gesto proprio è interessante per me, mi soddisfa, mi è sempre servito. Dal lavoro con i disabili e i pazzerelli, ho imparato a non giudicare e ad essere libera.
N: Le restrizioni, i canoni non ti interessano, insomma.
V: Esattamente. Parto dal presupposto che tutto ciò che abbiamo intorno è ad interpretazione personale. Alla fine, io ho fatto delle mie difficoltà i miei punti di forza. Quello che mi faceva piangere in Accademia – perché secondo loro non sapevo disegnare – è diventato il mio linguaggio, quello delle vignette, dei collage. Un linguaggio non accademico, non ortodosso. Nell’astratto mi destreggio bene.
N: Cosa ne penserebbe secondo te un critico d’arte? Forse non ti interessa?
V: In realtà, mi interesserebbe perché, a parte agli occhi di alcune persone, mi sento sempre un po’ un animale strano.
N: Io, però, voglio insistere su un punto: perché Catania e non Messina?
V: A Catania sono venuta per studiare, ma poi ci sono rimasta. Qui ho incontrato Ciccio Giunta, il mio compagno, con cui sono venute fuori anche delle belle collaborazioni. Lui ha una brigata di cucina, che è anche un’associazione, che si chiama Rocket from the kitchen. Abbiamo collaborato proprio praticamente nell’ambito della cucina, io lavoravo con lui e producevo anche i manifesti dei menù. L’ho fatto per due anni, è stato un periodo molto proficuo – la collaborazione comunque continua tutt’ora, ad esempio per Vastasa Experience. L’associazione non si occupa solo di cucina, ma anche di diffusione di cultura del Mediterraneo. Insieme promuoviamo iniziative musicali e artistiche, partecipiamo a festival.
N: Diciamo che la cucina è ormai, di fatto, una nuova forma di espressione. Dipende anche da come la si interpreta, se come necessariamente una forma di lusso o come un’opportunità.
V: Sono d’accordo, Rocket from the kitchen, per esempio, usa come approccio la cucina della nonna, e si affida anche ad una piccola filiera di produttori locali; c’è quindi un’attenzione particolare al territorio e alle tradizioni. Tornando al perché Catania e non Messina, ti dico anche perché qui sono riuscita a crearmi una rete di mutuo aiuto di amici e collaboratori; anche a Messina in qualche modo è così, ma qui l’approccio è diverso. Quindi, quando devo fare qualcosa che ha a che fare con l’arte, so già a chi rivolgermi.
N: Prima parlavi di un progetto con airbnb. Spiegaci meglio.
V: Si tratta di due experience; una si chiama Un tea da Vastasa, cioè tu ti porti la tazza e io ti offro una selezione di tisane del territorio – frutto di una partnership con un laboratorio artigianale, che si chiama Oro delle fate, che fa tisane, the e lavora con prodotti naturali a km 0 – durante un pomeriggio per quattro persone in cui apro il mio studio e mostro le mie diapositive dipinte. L’altra si chiamerà Live painting e degustazione, che in parole povere è un’occasione per degustare prodotti del territorio e vedere me che improvviso pittura su vetro.
N: Che bello! Questo aspetto interattivo è molto interessante.
V: Sì, infatti, proprio poco tempo fa, in occasione di uno shooting con Dorotea Casabene e alcuni amici che si sono prestati come modelli, uno di loro Livio Lombardo in arte Saint Huck, mi chiesto Posso provare?, e l’esperienza è stata parecchio interessante, perché non si trattava più della mia sola performance, ma proprio di connessione ed interazione. Il fruitore che crea – questo ragazzo, per esempio, è un musicista e quella volta si è fatto da sé il manifesto per l’LP che sta producendo. E questo mi fa venire in mente che gli adulti hanno bisogno di uno spazio per l’arte: BASTA FARE LABORATORI PER BAMBINI! (ndr ride)
N: Sono assolutamente d’accordo.
V: Sarebbe bello proporre esperienze e lasciare delle competenze che di fatto sono plasmabili. Da un po’ penso che vorrei organizzare un pomeriggio d’arte per adulti, dove proporre non solo delle tecniche, ma delle tematiche, degli spunti.
N: A proposito di esperienze, raccontacene qualcuna che hai fatto prima di SinMetro.
V: Una di quelle più significative è quella con i pazzerelli di cui ti parlavo prima: una realtà, che adesso non esiste più in quella forma di allora, che si chiamava Cuori rivelati, era una compagnia teatrale, per cui io facevo il tecnico luci e il light designer. Poi ad un certo sono impazzita e ho iniziato a fare arte visiva con loro; sono venute fuori tante belle cose, tra cui anche una mostra, abbiamo partecipato ad una call di mail art. Tutti mi hanno sempre detto Tu fai arte-terapia con queste persone. Io ho sempre risposto che in realtà sono loro che la fanno a me. Mi sono sempre sentita, in una qualche maniera, tra miei simili, tra gente che non ha alcun tipo di filtro. Questo rapporto che ho instaurato con loro, è una sensazione che continuo a portarmi appresso, proprio come approccio alla vita e, di conseguenza, all’arte.
N: Quanto è stato difficile realizzare questo progetto? Quali intoppi hai incontrato nella strada?
V: Partivo già dalla circostanza di avere il cuore totalmente infranto. Ho perso il mio papà a maggio del 2021, non è un caso che ho aperto lo studio nel maggio dell’anno successivo. È stato un duro colpo, ero chiaramente molto giù. In una certa maniera, però, questa mancanza mi ha aiutata a trovare la spinta per mostrami, per rendermi più visibile. La prima difficoltà è sempre economica, ovviamente. Avevo fatto dei conti, pensavo di potercela fare anche con il lavoro in cucina, ma il mio compagno mi ha fatto notare che se davvero volevo riuscire dovevo impegnarmi e concentrarmi esclusivamente nel mondo dell’arte. Il supporto di mia madre e del mio compagno sono stati fondamentali.
Le difficoltà più grosse sono state proprio strutturali, perché, sì, lo spazio è ottimo, ma per mesi un muro, vero e proprio, mi ha fatta penare. L’altra difficoltà è stata la lotta all’autosabotaggio.
N: La maledetta procrastinazione, guaio della nostra generazione.
V: Sì, e poi ti ritrovi appunti e to do list ovunque. Una strenua lotta contro se stessi, in pratica. Ma sempre mi tornavano alla mente le parole di Bernardo uno dei miei amici dei Cuori rivelati che erano non mollare mai, Valeria! E se lo dice lui, allora sarà vero, non devo mollare mai.
N: E c’ha ragione!
V: Alla fine, questa menzogna che ci hanno raccontato – a noi che siamo cresciuti negli anni ‘90 – che potevamo fare tutto, si sgretola a contatto con la realtà. Ricordo sempre come verità fondamentale della mia condizione di artista l’esempio di Paolo Picozza, un pittore romano, amico del mio compagno, che viveva la sua vita da artista come atto necessario. Io mi sveglio, respiro e dipingo. Quindi, io non FACCIO l’artista. Io SONO. Senza presunzione. In questo piccolo tratto che ho percorso finora, le difficoltà sono più mentali che reali, secondo me.
N: Cavalcando l’onda delle ispirazioni e degli esempi da seguire. Quali sono e sono stati i tuoi?
V: A proposito di questo, ti faccio vedere un libro (ndr mi mostra questo libro che si trova evidentemente a portata di mano, come se fosse di assidua consultazione) che è di Austin Kleon e si intitola Semina come un artista. Un libro che sembra una sciocchezza, ma che contiene tantissimi ottimi consigli per chi li vuole captare – se riesci a guardare oltre l’aspetto -, anche soprattutto per centrarsi nel proprio lavoro. Ti mostra proprio non un modo per venderti, ma per comprendere il tuo valore. Questo per Vastasa mi è servito moltissimo e, sono sicura, che continuerà a servirmi.
N: Tornando al territorio, che, come puoi capire, è uno dei miei argomenti preferiti, quanto è radicato il tuo progetto nel territorio catanese, e in quello siciliano in genere?
V: Diciamo che il fatto che io stia provando a fare squadra in un certo senso con quelli vicino a me – per esempio Baubò Art Factory di Catania e di Noto, contatti con persone amiche che stimo artisticamente e umanamente – prova questo legame al territorio. Questa realtà, SinMetro, è in divenire, Catania è casa mia, ma io sono di fatto una straniera. E lo rivendico. Però, vedo che in quest’area della Sicilia – Catania, Noto, Agrigento, in particolare il paese di Grotte con l’associazione La Biddina – c’è parecchio fermento. Piano piano il territorio ci darà soddisfazione in qualche maniera.
N: Restiamo fiduciosi, allora! Vivendo in UK, mi è capitato di osservare come la concezione anglosassone dell’esperienza museale, per esempio, sia molto diversa da quella italiana. Una cosa che mi piace moltissimo è l’interattività, che, di fatto, crea un rapporto vivo col fruitore.
V: Sono d’accordo! Io, quest’esperienza tattile, per esempio, ho cercato di ricrearla con l’espozione delle cartoline. Progetto nato su indignazione mia per la spazzatura intorno me.
N: Molto carina l’idea della Munnizza santa subito!
V: Sì, perché per me la spazzatura è ricchezza. In occasione dell’esposizione di cartoline, ho chiesto che mi venissero mandate cartoline per tutta l’estate; non sapevo cosa mi sarebbe arrivato, tutto è arrivato più o meno nella seconda metà di settembre, praticamente quando dovevo già allestire. Ero in ritardo, in pratica. Non avevo idee. Alla fine mi sono immaginata una specie di reticolato, con cornici che avevo conservato, e ho infilato le cartoline casualmente con degli elastici, disseminando lo spazio di lampadine e lenti di ingrandimento per poter guardare meglio e da vicino le cartoline.
N: Mi sembra di capire che il tuo è un rapporto quasi carnale con l’arte. A questo punto, la domanda provocatoria mi sorge spontanea: qual è il tuo rapporto con il digitale? e, quindi, con queste nuove forme d’arte che si vanno affermando? NFT, per intenderci.
V: Io sono analogica, nel mio essere digitale. (ndr ride) L’unico approccio che ho è uno scanner per i miei disegni. Tramite quello, passo le cose sul computer e ci lavoro un po’. NFT e simili, sinceramente, non li capisco. Non riesco a capirle. Alla fine io faccio cose effimere che, una volta generate, se ne vanno. Cose uniche, che non possono essere riprodotte. Quindi, un po’ mi stona, ci devo ancora riflettere.
N: Dall’impalpabile ci spostiamo sul palpabile e parliamo di materiali. Quanto sono importanti i materiali nel tuo lavoro? Ma soprattutto, quanto conta il riuso per te?
V: Io, prevalentemente, utilizzo materiale regalato o trovato. Le uniche cose che compro sono pennelli e strumenti, in pratica. Vengo da una bellissima esperienza, la Palestra Lupo, in cui si utilizzava solo materiale riciclato. Lì c’erano un paio di stanze e trovavo tutti i materiali che volevo. Ma già quando stavo a Messina, nella cucina di mia nonna, avevo creato una specie di piccolo laboratorio, un’alcova di munnizza. Una sedia – una specie di sedia tipo wassily, quella del Bauhaus – che ho in studio viene proprio da quella raccolta. Per me, è molto importante questa cosa del riciclo dei materiali. Per tanto tempo, ho anche provato a fare colori naturali, e a questo accompagno l’autoproduzione di strumenti d’arte. Faccio per esempio i gessetti.
N: Che bello!
V: Sì, mi sono anche approcciata alla colorazione naturale, ho usato gli scarti di ortaggi come bucce noccioli e quant’altro. In attesa che delle piante tintorie crescano nel terreno sull’Etna di un mio caro amico, quindi è sicuramente una cosa a cui mi voglio dedicare meglio.
N: Andiamo verso la conclusione. Raccontami una situazione assurda in cui ti sei imbattuta e una situazione che ti ha fatto pensare di mollare.
V: La cosa assurda è stata la situazione in cui mi sono trovata nel cortile di palazzo Vasta, dove si trova lo studio. Ovviamente, lì c’è divieto di sosta, non si può parcheggiare. Puntualmente, però, agli inizi, trovavo sempre auto parcheggiate davanti al cancello dello studio o addirittura spazzatura. In realtà, questa stessa situazione mi ha fatto pensare più volte di abbandonare, quindi rispondo ad entrambe le domande. Però, poi mi sono messa con pazienza e gentilezza, e a furia di bigliettini e baloon e poster, ce l’ho fatta: hanno smesso di parcheggiare davanti al portone di SinMetro. Il mio essere rompiscatole, ma gentile ha vinto. Che è un po’ la mia idea di socialità del resto, che per me è cura dei luoghi e di conseguenza delle persone.
N: Alla fine comunità e arte vanno di pari passo. Questo tuo progetto, come quello di molti altri, è di fatto non solo creazione artistica, ma anche creazione di comunità.
V: Esatto, io punto proprio a questo. Spero in un mondo più di contatto e meno di polpette e foto ed eventi.
N: Detto questo, che condivido appieno, spero verranno a trovarti in molti da Vastasa. A presto e grazie!