Difficile riuscire a trovare qualcosa che susciti maggior terrore, soprattutto nella società odierna, che la limitazione della propria libertà. Siamo abituati a non avere nessuno che ci dica come vestirci, cosa mangiare, dove possiamo andare e dove no, per chi dobbiamo votare, come ci dobbiamo comportare fuori casa e a casa, cosa possiamo dire e non dire, cosa possiamo pensare. Se tutto questo però non accade, beh, possiamo tranquillamente chiamarla dittatura.
Non è così facile parlare di questo tema, soprattutto in un momento storico come quello attuale. Viviamo in un mondo nel quale, ahimè, le dittature esistono ancora, e non sono neanche troppo distanti da noi; anzi, spesso sono proprio girato l’angolo. Ma spesso e volentieri preferiamo chiudere gli occhi, o per lo meno socchiuderli. Troppi legami, interconnessioni ci collegano a quei luoghi dove le dittature continuano indisturbate ad operare, senza che alcuna delle misure messe in atto apporti giovamento.
Cade in quest’anno, nel mese appena passato, una triste ricorrenza: il cinquantesimo anniversario dal golpe in Cile, quando il leader del partito di sinistra Unidad popular, nonché presidente democraticamente eletto del Cile, Salvador Allende, venne assediato nel Palazzo presidenziale, ove fu costretto ad uccidersi per non finire nelle mani dei militari. Il generale Augusto Pinochet prese il potere, dando inizio ad una cruenta dittatura: venne sospesa la costituzione, furono bandite le opposizioni, si prese il controllo sull’informazione. Chi non era d’accordo veniva semplicemente ucciso o fatto sparire. La dittatura durò poco più di un decennio; nel 1987 si ricominciò a legalizzare alcune forze politiche, nel 1988, un referendum indetto per decidere se prorogare il mandato di Pinochet diede risultato negativo e l’anno successivo vennero indette libere elezioni.
La democrazia cilena mostra tuttavia ancora dei forti segni di sofferenza e arranca per stare al passo con gli altri. Nel 2019 sono scoppiate delle violenti proteste da parte della popolazione civile contro le disuguaglianze e l’aumento del costo della vita, con tutte le ovvie conseguenze. E’ stato perciò indetto un referendum per stabilire se fosse necessaria una nuova costituzione che ha avuto un grande supporto. Per ottemperare a ciò, è stato necessario eleggere una assemblea costituente, la quale nel 2022 ha proposto un progetto di costituzione; tale proposta è stata tuttavia bocciata ad un referendum tenutosi nel settembre dello stesso anno.
Si è pertanto ritenuto opportuno procedere alle elezioni per la composizione di un nuovo consiglio costituzionale, nel maggio 2023, il quale dovrà presentare un nuovo progetto di costituzione e sperare di passare la prova del referendum.
Il caso cileno ben mostra come recuperare terreno dopo una dittatura è tutt’altro che semplice, anzi. Il dittatore non può che ignorare i veri bisogni dei cittadini, facendo sì che questi si ripropongano, violentemente, quando la dittatura volge al termine. La popolazione, disabituata ad una pluralità partitica e alla libertà di espressione, avrà gioco forza nell’usare anche la violenza per rivendicare i propri diritti. Ma l’aver vissuto sotto una dittatura rende sempre più complesso accettare il cambiamento; per questo, in media, ci si sente comunque sempre più rappresentati dalle forze conservatrici piuttosto che da quelle che premono per un cambiamento radicale. In tal senso, il continente latinoamericano offre molteplici esempi: quasi nessuno dei Paesi sudamericani vittime di una dittatura è riuscito ad avere al governo forze di sinistra per un lungo periodo.
Il Brasile, ad esempio, vittima di una decennale dittatura e sconvolto da una dilagante corruzione, ha ritenuto più facile abbandonarsi nelle braccia di Jair Bolsonaro, ex militare; nonostante egli sia stato di recente sostituito dal leader del partito dei lavoratori, Luis Ignacio Lula Da Silva, non sono mancati tentativi da parte di gruppi della destra reazionaria di riprendere il potere inneggiando a Bolsonaro.
Ma la vera domanda da porsi è: possiamo impedire una dittatura? Fino a che punto possiamo contrastarla? E con quali mezzi?
Alla prima domanda è abbastanza semplice rispondere: no. Nella maggior parte dei casi in cui una dittatura viene instaurata, è facile che il tessuto sociale sia già stato talmente tanto influenzato che sarà perlomeno complesso far capire che quanto sta succedendo è sbagliato e che va contestato. Una dittatura non arriva mai all’improvviso; molto più spesso è invece il frutto di un lavoro graduale ma costante: assottigliare via via il contenuto dei diritti di un popolo. Se anche non è così, comunque, ci sarà una polizia politica o l’esercito che provvederà a mettere a tacere il dissenso e a mettere paura a tutti gli altri.
Contrastare una dittatura, beh, non è un lavoro facile, ma soprattutto non è un lavoro in cui si vince intervenendo di forza e con ostentazione. Non servono i carri armati o la violenza, ma il piccolo contributo di tante persone che serva perlomeno a risparmiare gli innocenti.
Un bell’esempio di questo è raccontato nel libro di Enrico Calamai, “Niente asilo politico. Diario di un console italiano nell’Argentina dei desaparecidos“. Calamai è un ex diplomatico italiano, in servizio a Buenos Aires durante gli anni della cruenta dittatura che ha sconvolto il Paese sudamericano. In qualità di viceconsole, riuscì ad aiutare moltissimi argentini facilitando la loro fuga dal Paese. A dimostrazione del fatto che tutti, se lo vogliono, possono apportare, nel loro piccolo, il loro contributo alla lotta contro le dittature addirittura da dentro le istituzioni. E che per farlo non sono per forza necessarie le armi, le proteste, i muri o i monumenti imbrattati. La forza morale è dentro di noi.