Non sono una grande ascoltatrice di musica mediorientale, però ne sono sempre stata terribilmente affascinata.
Ricordo quando, in sede accademica, chiesi ad uno dei miei insegnanti quali fossero le principali differenze tra quella e la nostra musica. A quanto pare fu la “domanda del panico”: dopo un attimo di terrore che gli cacciò via la luce vitale dagli occhi, iniziò a balbettare tutta una serie di minchiate che sfociarono ben presto in un discorso sgangherato sulla letteratura italiana, pensa tu! Io plausibilmente non capii un cazzo – ma un cazzo davvero, eh! – e scelsi la via del silenzio tattico, che volendolo idealizzare è un po’ lo stesso concetto che dovresti sfoderare quando ti trovi davanti ad un orso e devi fingerti morto. È sopravvivenza, baby.
Qualche settimana dopo chiesi ad un pianista che ben prima di me si era posto la stessa domanda e che, al contrario del primo, la risposta la sapeva: con tutta la sua filosofica flemma iniziò il suo discorso parlandomi dei quarti di tono, e da lì mi si sono spalancate le porte di un mondo!
La band siriana dei Khebez Dawle è stata quindi per me una piacevole scoperta.
Nasce a Damasco, dapprima come progetto individuale per poi consolidarsi l’anno successivo a Beirut ed acquisire membri; ha il tipo di sonorità a cui il nostro orecchio non è granché abituato, in effetti… ma che in qualche modo ti richiama a sé. Nei loro pezzi le atmosfere ambient si mescolano ad un indie-rock cristallino e all’occorrenza quasi metallico, intervallato da quei pochi richiami che rasentano la dance (nulla di pacchiano, posso giurarlo) e talvolta da picchi più potenti in cui la chitarra diventa graffiante e selvaggia, il basso crudo e deciso, la batteria dirompente, tutti elementi che mettono incredibilmente in risalto una voce che risente tremendamente delle influenze sufi dei canti devozionali. Particolare essenziale è che Anas Maghrebi – leader e vocalist della band – canta in arabo: una scelta coraggiosa se vuoi esportare la tua musica in Europa. Pur non capendoci un tubo se non grazie ad un comune translate, personalmente non ho percepito questo come un effettivo limite, tant’è che già nel giro d’un paio di ascolti il mio orecchio si è abituato al suono della lingua che ad ogni minuto mi sembrava sempre più familiare. E comunque, ho trovato fosse una caratteristica interessante e particolare che va a coniugarsi bene alla strumentale.
I loro testi non scadono in facili moti di pietismo, piuttosto fanno leva su una forma di linguaggio essenziale dove ad imperare è il realismo, che non fa altro che documentare in chiave rock una condizione dolorosa e schiacciante.
Ascoltarli è letteralmente un viaggio ed equivale ad immergersi in una realtà a noi parecchio distante. Hanno all’attivo un solo, omonimo album: “Khebez Dawle”, pubblicato nell’agosto del 2015, nel quale viene raccontata la prospettiva di chi – come loro – viene estirpato dal luogo in cui è nato a seguito della ribellione militarizzata e assiste a violenze ed ettolitri di sangue versato, un luogo in cui la libertà di pensiero e azione non hanno molto a che vedere con quella a cui ci appelliamo noi, in certi casi col capriccio del benessere a favore.
A questo si aggiunge “Ara”, singolo uscito nel 2020, dall’imprinting più pop, in certi punti decisamente electro-dreamy, piccola perla che acclara un’evoluzione stilistica della band.
Anas ed i suoi compagni sono infatti stati testimoni oculari della Primavera araba (più nello specifico, della Primavera di Damasco), un fenomeno complesso che ha interessato il Medio Oriente a partire dalla fine del 2010 e tuttora in corso. Non mi dilungherò in nenie socio-politiche, in questa sede c’interessa sapere che in Siria la miccia si è accesa a seguito di una serie di proteste che chiedevano la fine del regime del controverso presidente Bashar al-Assad (che aveva preso il posto del padre) e miravano a riformare il governo a favore di democrazia.
Non so dire se sia in quell’esatto istante che la storia di Anas e dei Khebez Dawle s’intreccia rapidamente con quella della condizione siriana… la speranza e l’ottimismo, di sicuro, vengono seppelliti non appena un loro collega batterista è stato trovato morto nella sua auto con una pallottola conficcata nel collo. Di lì a poco l’atmosfera generale non tarda ad inasprirsi, con scontri che diventano in un batter d’ali sempre più violenti.
Prende il via l’odissea di chi vede soffocare la propria quotidianità, ogni piccola stupida abitudine, i legami che ha costruito e si ritrova con l’esistenza completamente sbrindellata.
Parlando di questi ragazzi non utilizzerò appositamente il termine “fuga”, ché per come la vedo io hanno più che altro acchiappato il coraggio a due mani affrontando la folle corsa alla volta della libertà e della possibilità di riservarsi un futuro che potesse dirsi dignitoso del vivere umano. Tra l’altro, loro stessi hanno voluto definire il loro come “un tour, non una fuga!”.
Hanno percorso una tratta pazzesca che li ha portati per un paio d’anni a Beirut e poi in Turchia, dove vendono tutto ciò che hanno – strumenti compresi – per accordarsi coi trafficanti e prendere una delle rotte del Mediterraneo (le tratte percorse dai profughi, per intenderci) che li ha visti attraversare il Mar Egeo a bordo di un gommone, con tutti i pericoli del caso, per approdare sull’isola di Lesbo.
L’aneddoto che regala un sorriso? Non appena poggiati i piedi sulla sabbia i Khebez hanno messo mano agli zaini, tirato fuori qualche CD da distribuire ai turisti presenti sulla spiaggia, presentandosi loro come band e attirando la curiosità della stampa.
Da lì Macedonia, Serbia e poi Croazia. A Zagabria sono stati chiamati prima a tenere un concerto in un campo profughi al quale, con loro grande sorpresa, si sono presentati soprattutto croati, e poi in un locale che in precedenza aveva ospitato God Is an Astronaut e Mogwai, esponenti cazzuti del post-rock.
Ultima e definitiva tappa la Germania, in cui Anas, Bachi, Hekmat e Muhammad possono finalmente stabilirsi: è a Berlino che trovano terreno fertile per la loro produzione musicale, oltre ad una comunità artistica pronta ad accoglierli, e vengono ingaggiati per fare un tour europeo.
Ma non lasciamo che la loro storia, per quanto intensa, eclissi la loro musica.
In tour, non in fuga!