Tina Merlin è principalmente conosciuta come la Cassandra del Vajont per aver più volte avvertito prima del disastro avvenuto nell’ottobre 1963; tuttavia la sua lunga militanza nel giornale l’«Unità» l’ha resa un personaggio chiave dell’Italia degli anni del dopoguerra. La casa sulla Marteniga, libro da cui è tratto il brano che segue, è la sua parziale autobiografia, pubblicata postuma, nel 1993, dalla casa editrice Il Poligrafo con una breve presentazione di Mario Rigoni Stern. Merlin ripercorre la sua infanzia fino agli anni della Resistenza: un racconto intimo non filtrato dalle dinamiche della narrazione. Il testo qui riportato racconta proprio le giornate precedenti la Liberazione.
Buona lettura e buona Liberazione a tutt*!
(Il titolo del brano è da me liberamente estrapolato dal testo.)
Fu un mese febbrile quello di aprile: la fine era vicina e ci sentivamo tutti euforici. I compagni erano inclini ad abbandonare le regole della cospirazione, ad uscire allo scoperto, ad avere maggiori contatti con la gente. I tedeschi dei presidi vedevano, ma facevano finta di non vedere, si rintanavano impauriti. – Nascondi meglio quel revolver, – dissi un giorno a un partigiano che scrutava con me il movimento di truppe sul ponte di San Felice – ti spunta dalla cintola.
Era questo il clima, ormai.
Rivedemmo il pane bianco, dall’inizio della guerra. In un cortile di Visome, una mattina sfornarono due ceste di pane per i partigiani. Con Wilma e Gina aiutammo due compagni a portarle in montagna. Da anni non vedevo pane bianco e quelle ceste sprigionavano un delizioso profumo. Faloppa e Lero continuarono a insistere: – Dai, prendetene una pagnotta a testa.
Mi sembrò un’eresia, un invito grave ad approfittarsi di viveri destinati ai combattenti, a quelli con il mitra in mano che dovevano prepararsi all’attacco. Ridevano, i due partigiani, della nostra ritrosia. Ma il pane non lo toccammo.
L’unica cosa che tanto desideravo era un paio di scarponi. Quelli sì, avrebbero dovuto darli anche a noi staffette che camminavamo spesso più dei compagni. I miei piedi erano sempre pieni di geloni. Quando Tom veniva a prendermi al posto di recapito di Faverga per portarmi al comando, gli ammiravo sempre gli scarponi nuovi, belli ingrassati e con i lacci colorati. Era un bel ragazzo Tom, con quegli scarponi sembrava un dio.
Nei primi giorni di aprile i compagni fecero saltare i ponti sulle strade di transito per il confine e sulla ferrovia. La Brigata decise di farlo in proprio, visto che gli aerei alleati non centravano mai l’obiettivo e demolivano, invece, i paesi. Il ponte sul Cordevole, a Bribano, crollò alfine sotto l’esplosivo dei partigiani. Mio fratello, con i suoi amici guastatori paracadutati in inverno con la missione militare ALBATROS, demolì quello sul Piave, a San Felice. I partigiani del Battaglione “San Felice” quello sulla Cicogna, tra Visome e La Cal. Tutti i Battaglioni erano mobilitati e compivano ovunque sabotaggi e mitragliamenti. Era l’inizio della fine. Io e Wilma facevamo progetti sul nostro futuro. L’abbiamo fatta anche noi questa guerra – dicevamo – qualcosa cambierà anche per noi. Cambierà sicuramente per Toni, pensavo. Forse potrà realizzare il suo sogno, interrotto con la guerra, di far parte di una squadra nazionale di calcio. Lo vedevo poco, in quei giorni; era sempre in giro a organizzare gli uomini. Tornando dal comando di Brigata l’incontrai, un giorno, sullo stradone per Belluno. Era verso il tramonto, i raggi del sole vibravano ancora nell’aria tiepida e lo investivano in viso. Mi guardò con grande tenerezza, socchiudendo gli occhi, dal sole: – Sei stata brava, – disse – quando sarà finita ce la racconteremo. Salutami la mamma.
Mi venne una gran voglia d’abbracciarlo e anche a lui, mi sembrò. Ma non eravamo mai stati abituati a esternare in quel modo i nostri sentimenti. Ci lasciammo con un sorriso di complicità totale, pedalando ognuno in senso contrario. Ero molto felice. “Ho un bellissimo fratello – pensai – che ormai mi stima grande. Per tutta la vita ci racconteremo di questa guerra fatta insieme”.