Non bastava l’orrore del conflitto alle porte di casa. Un’altra guerra, sopita per lungo tempo e in attesa di una soluzione da oltre settant’anni, è risorta dalle proprie ceneri con una portata inaudita. Pronta a spazzare via uno status quo faticosamente raggiunto e a cambiare radicalmente la situazione in Medio Oriente.
L’orrore in Israele e Palestina ha ormai quasi ottant’anni, eppure nessuno è ancora stato in grado di trovare una soluzione duratura e inclusiva di diritti per entrambe le parti. I motivi di questo sono molteplici, ma sarebbe forse il caso di partire dall’inizio.
La zona corrispondente alla Palestina prima della creazione dello Stato di Israele venne identificata dagli ebrei come la terra dalla quale i loro antenati erano stati cacciati in tempi antichissimi e verso cui fosse necessario fare ritorno. Complici le discriminazioni e le persecuzioni perpetrate nei confronti degli ebrei dall’Ottocento, già allora cominciò lo spostamento di ebrei provenienti dall’Europa verso la Palestina, creando non pochi problemi a quella che poi divenne la potenza mandataria della Palestina (incaricata cioè del governo del Paese in attesa che si verificassero le giuste condizioni per la sua indipendenza), la Gran Bretagna. Negli anni Trenta del Novecento i palestinesi iniziarono a protestare per l’appropriazione da parte degli ebrei di terreni fino ad allora di loro pertinenza. Per sedare le rivolte gli inglesi furono costretti ad emanare, nel 1939, un Libro Bianco, con il quale si limitava l’acquisizione di terreni da parte degli ebrei e si auspicava la creazione di una Palestina indipendente.
La Shoah cambiò improvvisamente le carte in tavola. Coloro che riuscirono a scappare si rifugiarono negli Stati Uniti o proprio in Palestina, dove la popolazione ebraica cominciò a crescere numericamente. Non sapendo più come risolvere la questione, vessati da problematiche interne ancora più pressanti, la Gran Bretagna decise, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, di rimettere il mandato alle neonate Nazioni Unite, le quali tuttavia non riuscirono a trovare alcuna soluzione concreta prima della scadenza del mandato britannico, il 14 maggio 1948, quando gli ebrei proclamarono la nascita dello Stato di Israele e cacciarono la popolazione della Palestina dalla zona.
Nonostante gli sforzi dei Paesi arabi circostanti, intervenuti a supporto dei palestinesi, non ci fu nulla da fare: Israele riuscì a mantenere consistenti porzioni di territorio, che vennero ulteriormente ampliate durante la guerra dei sei giorni, nel 1967, andando a ricomprendere le alture del Golan e la penisola del Sinai (fino ad allora sotto controllo egiziano), la striscia di Gaza, la città di Gerusalemme e la Cisgiordania.
Dopo il tentativo di una coalizione di Paesi arabi, guidati da Egitto e Siria, di riprendere i territori perduti in quella conosciuta come la guerra dello Yom Kippur, nel 1973, la svolta arrivò nel 1978 con la firma degli accordi di Camp David tra Egitto e Israele, con i quali l’Egitto riconobbe Israele e riottenne la penisola del Sinai. Il presidente egiziano Anwar al-Sadat non ebbe buona sorte dopo l’accordo: proprio a causa della firma degli accordi venne ucciso da un fondamentalista islamico egiziano nel 1981, fortemente contrario all’avvicinamento ad Israele.
Dopo anni di rivolte, ivi inclusa la prima intifada del 1987, Israele e Palestina avviano un processo di normalizzazione dei rapporti, culminato negli accordi di Oslo del 1993 firmati dal primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e dal leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) Yasser Arafat, i quali prevedevano il mutuo riconoscimento e contenevano le condizioni per un governo palestinese sui territori della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.
La mancata implementazione degli accordi ha tuttavia lasciato in sospeso la questione israelo-palestinese. Questo si deve, da un lato, allo spostamento sempre più a destra delle coalizioni di governo in Israele, che pertanto ha radicalizzato la sua posizione rispetto alla Palestina e ha continuato pressoché indisturbata a controllare sempre più ampie porzioni di territorio; dall’altro, alla presa del potere da parte del gruppo terroristico Hamas nella striscia di Gaza dal 2006, in contrapposizione all’Autorità nazionale palestinese, con sede in Cisgiordania, accusata di essere corrotta e indifferente ai veri bisogni della popolazione palestinese.
Nel corso degli anni i lanci di razzi sono stati frequenti da una parte e dall’altra, così come le proteste, continuando ad inasprire la tensione tra i due Paesi. La strategia per risolvere la questione è stata tuttavia fallimentare, e ciò per delle ragioni estremamente semplici. L’amministrazione statunitense, che da sempre supporta Israele (non foss’altro perché la diaspora ebraica in America ha raggiunto cifre estremamente importanti e sia ormai radicata nel tessuto economico e sociale dello Stato a stelle e strisce), ha preferito indirizzare i propri sforzi nella normalizzazione dei rapporti tra Israele e i Paesi arabi circostanti, con una serie di accordi tra i più importanti Stati della regione e Tel Aviv.
Gli attacchi di Hamas del 7 ottobre scorso oltre il confine della striscia di Gaza sono stati preparati per lungo tempo, come dichiarato da uno dei dirigenti del movimento a Russia Today in una recente intervista. Ma nessun altro apparentemente, neppure l’intelligence israeliana, li aveva visti arrivare.
Il problema della questione israelo-palestinese sta attualmente proprio in questo: nel fatto che nessuno si sia reso conto che una normalizzazione dei rapporti tra i due, che conduca alla soluzione dei due Stati supportata dalle Nazioni Unite, non potesse prescindere da un pari coinvolgimento dell’Autorità nazionale palestinese, alla cui guida si è posto il più moderato Al Fatah e che è attualmente l’unica autorità palestinese riconosciuta. Nonostante le accuse di corruzione e la mancata organizzazione di elezioni dal 2006, l’Autorità nazionale palestinese può essere l’unico interlocutore credibile per cercare delle soluzioni condivise per il raggiungimento dell’obiettivo.
Da qualche anno tuttavia, come ricordato, sono stati coinvolti solo altri Stati arabi e Israele, di fatto non riconoscendo la necessità di un coinvolgimento a 360 gradi dei palestinesi. Per quanto sia scontata la condanna degli attacchi, che hanno portato all’uccisione anche di donne e bambini e all’uccisione di civili, nonché alla presa in ostaggio di moltissime persone, Israele e i suoi protettori hanno sottovalutato l’importanza di coinvolgere ancora una volta gli esponenti della popolazione palestinese nel tentativo di normalizzazione dei rapporti.
Chi capisce questo, capirà che il supporto esclusivo dichiarato negli ultimi giorni a Israele da parte della comunità internazionale non può aiutare a fermare gli scontri, che rischiano di portare ad una delle più sanguinose guerre in Medio Oriente e di stravolgere lo status quo, indubbiamente in negativo per la popolazione palestinese, che da troppo tempo ormai vive segregata, con tassi di disoccupazione elevatissimi e con un accesso praticamente nullo ai più fondamentali servizi.
Se gli Stati occidentali, con in testa la Germania, continueranno a sentirsi addosso la responsabilità della Shoah e a farne un pretesto per difendere il solo Israele, senza tenere in considerazione i diritti dei palestinesi, gli stravolgimenti delle ultime settimane avranno conseguenze di portata incalcolabile anche per loro. I flussi migratori hanno raggiunto eccezionali vette già prima dello scoppio delle ostilità; con l’esacerbarsi del conflitto, la situazione potrebbe diventare incontrollata, senza contare il rischio concreto che venga effettivamente perpetrato un vero e proprio genocidio ai danni dei palestinesi.
Proteggere la popolazione civile è adesso l’imperativo che tutti i governi devono perseguire. Sarà necessario profondere sforzi estremi per trovare una soluzione condivisa e inclusiva, nel rispetto dell’ipotesi dei due Stati, che sia reale e praticabile, impedendo una volta per tutte ad Israele di estendere ulteriormente il proprio controllo anche prevedendo delle opportune sanzioni in tal senso.
Non si può protendere né da un lato né dall’altro perché le responsabilità sono molteplici da entrambi i lati. Ma unendo gli sforzi è adesso urgente porre fine definitivamente alla questione.