Mio fedelissimo Cafonauta, Radio Astrid ti saluta!
Come può uno scoglio arginare il mare io questo non lo so dire, ma posso affermare con stretta convinzione che il detto ‘Il libro non si giudica dalla copertina‘ non sempre è veritiero.
O popolo: ci hanno propinato questa soave bugia, ci hanno fanno infragiliti, ci hanno resi impreparati ad affrontare uno degli aspetti fondanti della vita.
E siamo usciti fuori come il peggior branco di disadattati, in bilico tra la fisima di uno sguardo che percorre incessantemente la figura che lo specchio riflette – millimetro dopo millimetro – e gli alti modelli della drammaturgia disneyana (com’è stato per quasi tutte le donzelle mie coetanee) in cui la principessa – tra orde di pretendenti – veniva scelta dal suo principe a partire dalla sua avvenenza, per poi venire eroicamente strappata ad anni di vessazioni e famiglie disfunzionali.
Il lieto fine, ad ogni modo, non è mai mancato.
Di contro, ci è stato ripetuto anche quanto la perfezione fosse un concetto imperfetto, ma non è valso a nulla ed era comunque troppo tardi. Perché ammettiamolo, nostro malgrado ci troviamo comunque a rispondere a dei criteri e delle aspettative del cazzo. Volendo dirla alla R.E.M., potremmo parlare di una Imitation of Life.
Avrei una voglia matta di sbudellare tutti i dogmi impolverati, parcheggiati chissà da quanto nel nostro Io, che influenzano continuamente la nostra scala di valori ed il nostro giudizio, quelli che associamo alla visione della normalità.
Si fa presto a giudicare uno scrigno di carne così, per come ci si presenta, spesso in maniera impietosa e in totale assenza di tatto. Salvo, poi, rassicurare noi stessi raccontandoci la grande bugia che delle apparenze ce ne frega poco, se non direttamente zero.
Qui sine peccato est vestrum, primus lapidem mittat.
Asceta metropolitano delle mie zeppe, basta prendersi in giro: la copertina si giudica, eccome se lo si fa!
Però non è mica detto che sia un tratto predittivo, eh. Vale nel rapportarsi ad altri esseri viventi così come nella musica.
Prendi esempio da me, che ho avvertito l’urgenza di affrontare l’argomento in maniera trasversale, facendo un lavoro che più sporco non si può!
Mi sono messa a scavare nell’universo delle copertine brutte, un po’ per masochismo e un po’ per incoscienza, e ne ho tirato fuori nientepopodimeno che un decalogo.
Cristina, smetti finché sei in tempo.
Prima di partire magari fatti un brandy che non guasta. E poi non voglio responsabilità.
Siamo pronti?
1. TINO – “POR PRIMERA VEZ’
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Questione impegnativa, quella di Tino.
Dubbio #1: posa da pornoattore amatoriale o da pubblicità del farmaco per il colon irritabile?
Dubbio#2: Si cela qualcosa dietro lo sguardo lussurioso di chi sfiderebbe Asmodeo in persona?
Non ci è dato saperlo.
Gli anni Ottanta, decennio icona di sobrietà e cloaca dello stile da tennista mai sceso in campo che spopolava dolorosamente.
Se ci si pensa, ad occhio e croce è da allora che l’umanità si porta dietro un fardello sociale rappresentato dai calzini di spugna.
Ma dietro questa smisurata audacia occultata da una polo attillata, batte il cuore autentico di chi scrive canzoni innervate d’amore. Terrificanti, melodicamente discutibili.
È un album che – se ascoltato per intero – ha la capacità di azzerare qualsiasi facoltà mentale.
Se c’è qualcuno che ti sta particolarmente sul cazzo, eccoti l’arma giusta!
2. THE FRIVOLOUS FIVE – “SOUR CREAM & OTHER DELIGHTS”
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Quante taniche di panna acida ci saranno volute per ricoprire da capo a piedi queste cinque, raggianti giovinotte? Le altre delizie potrebbero creare qualche tentennamento, certo è che diano uno schiaffo morale a Tino erché se la tua musica fa cagare fare il togo non serve ad un cazzo e può perfino peggiorare la situazione.
Ognuna vanta una preparazione orchestrale classica, cazzuta e deliziosamente attempata. Destano il tipico interesse discreto e démodé, che risuona negli ottoni di una banda dal sapore di casa della nonna accumulatrice compulsiva mista alle jelly ’50s fotografate in mille salse diverse all’interno dei libri di ricette da perfetta massaia che trovi in qualsiasi biblioteca della nonna (sì, sempre l’accumulatrice compulsiva).
Che le si ami o le si odi, una cosa è certa: distruggerebbero con un battito di ciclia gran parte dei musicisti contemporanei.
Di loro non si può e non si deve dire cattiverie. A me, poi, piacerebbe trasudare ¼ della loro forza vitale ma ormai non ci provo manco più.
3. SWAMP DOGG – “RAT ON!”
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Ok ok, stiamo calmi e freniamo la facile ironia: sì, sta cavalcando un sorcio e sì, sembra anche esserne entusiasta.
Creepy? Non fare il sacrilego.
In una sola copertina si palesa tutto il genio umano, sembra la concretizzazione di una botta di acidi e mi ricorda anche un po’ Bastian che vola in groppa a Falkor in The Neverending Story. Film che peraltro mi ha dato l’orticaria dalla notte dei tempi.
Lui, oltre ad essere elettrizzato dalla cavalcata (smetto prima di entrare in un porno-vortice, lo giuro) è una delle figure di spicco di soul e R&B made in USA, e se ti alletta il genere quest’album è pane per i tuoi denti. In linea di massima, ascoltalo anche se non ti appassiona la categoria, così magari ti fai una cazzo di cultura.
“Questo disco è il mio pensiero d’amooore per teee, per teeeeee!”. Ah, un giovane Mal… con la sua dizione italo-americana e quegli occhi penetranti.
Mò però ti becchi la versione di Swamp Dogg e “accetta questo regalo“.
4. AARON – “MITEN OIS?”
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Sei belloccio, sei finlandese, sei anni ’70 ed io ti noto. Eccome, se ti noto! Anche se la tua musica non è degna di nota…
Sussurrami quel che vuoi nella tua lingua, tanto non capisco un cazzo e puoi dirmi quello che ti pare.
Scherzi a parte, Aaron è stata una piacevolissima scoperta!
D’accordo, la copertina non è esattamente brutta… forse più senza infamia e senza lode. Ma l’album ti fa immergere nella finnish pop culture ’70s fresca e trasognata, con picchi di sentimentalismo non richiesti ma dovuti ed una leggerezza che non scade in superficialità. Ti dà quella grinta tipicamente estiva e vaporosa, utile ad affrontare anche l’inverno più gelido.
Ha un timbro di voce inusuale, che un minuto prima ti dà sui nervi e poi ti acchiappa per sfinimento. E poi ‘so cazzi!
Sono diventata la sua fangirl più tenace, inutile continuare a nasconderlo.
5. THE LOUVIN BROTHERS – “SATAN IS REAL”
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Se la musica riprovevole fosse un girone infernale, avrebbe queste sembianze e porterebbe il nome dei Louvin Brothers. Un delirio country annunciato da una copertina bislacca.
Se non altro, adesso è noto da dove i creatori di South Park hanno preso l’ispirazione per creare il loro Satana. A quello della nostra cover, però, mancano i dildo agitati con liquido compiacimento davanti ad un imbarazzatissimo Saddam Hussein.
Per amore della scienza, ho ascoltato anche questo da cima a fondo. Dodici tracce. DO-DI-CI. Renditi conto.
Che dire… è un vaneggiamento cattoclericale costante. Mi fa infilzato il cuore senza chiedermi il permesso. Mi ha bucato l’innocenza.
In the meanwhile, nell’Ade: “Ehy, Satana… ti hanno dedicato un altro album!”.
Poi si lamentano se Il Capo s’incazza…
6. QUIM BARREIROS – “RECEBI UM CONVITE”
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Il Portogallo può regalare forti emozioni. Però non in questo caso e sì, la copertina è fortemente predittiva.
Ma poi, in Portogallo che cazzo si fa? Voglio dire, che c’è da vedere? Voglio dire, oltre alle prevedibili colture di canna da zucchero e alle coste frastagliate. Ma poi, esiste sul serio? Qualcuno ci è mai veramente stato?
Solo la fisarmonica ha idea di quali indicibili segreti le si celino dietro, ma è giusto condividere con te la lesione che crea questo dubbio. Perché lo psicanalista non devo pagarlo solo io, volevi la par condicio? Eccotela.
Trauma e folkore. Trauma e folklore, carino. T’è piaciuta l’uguaglianza, eh?
Avrai certamente notato che Barreiros pare Borat e bla bla bla, ti promuovo a Signore del Cinema.
Adesso spendi bene ‘sta qualifica, mi raccomando.
7. ORION – “REBORN“
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Orion è un’apparizione, Orion è estasi, Orion è sogno e utopia. E per favore, non lasciarti ingannare dal fatto che sia un essere chimerico per metà Zorro e per metà wrestler messicano. Tutto, nell’Orion Universe, ha motivo di esistere. La posa plastica da supereroe si scontra con l’orologio da polso che ce lo rende più umano. Il turchese carta da zucchero porta quel fervore della Las Vegas dei tempi d’oro, con un velo di malinconia kitsch.
È lui, è Elvis. E no, NON ESAGERO!
[Forse solo un pochino. Puniscimi che me lo merito.]
La casa discografica – ma dai?. – giocò pesantemente sulla somiglianza timbrica con The King, che se è vero che risulta una mezza scimmiottatura, d’altro canto finisce per tramortirti. In senso buono.
Album goduto tutto, tutto, tutto! L’eroe che la musica si merita ma che non ha mai osato chiedere.
8. THE BEAR BROTHERS – “RED SHOE TRUCKEN”
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Ho avuto un ammiratore affatto cortese che pare una fusione tra questi due soggetti e che ho rinominato ‘Uomo Pelo from Tupelo‘.
Le sue avances inopportune mi hanno ripugnato così tanto da inviscidirmi l’aura per le prossime tre reincarnazioni.
La copertina è chiaramente impietosa nei confronti dell’esistenza stessa e non mi sento di escludere che a causa sua ci sia la fame nel mondo.
Red Shoe Trucken, d’altro canto, è un pezzo che parte come un impasto tra Bollywood ed i Led Zeppelin (in particolare la voce, siamo alla seconda blasfermia… puniscimi nuovamente che sta iniziando a piacermi): i primi secondi di ascolto ti scaraventano in un ciclone di smarrimento. Tu sei chiaramente impreparato, forse smarrito. E poi… cazzo, spacca!
Sei al cospetto di una rarità del glam rock anni Settanta.
Condannabile? Ovviamente. Però dopo un pochino migliora. Poverino, ha bisogno dei suoi tempi.
9. “CIRCUS CLOWN CALLIOPE!”
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Questa copertina mi ha riportato alla mente lo shock d’infanzia del bambolotto-clown che una mia prozia custodiva sull’armadio, racchiuso nella sua scatola cilindrica di una plastica trasparente da quattro lire e un po’ ammaccata.
Siccome volevo assediarlo, la zia-mostro pensò bene di dissuadermi raccontandomi che il piccolo clown fosse un bimbo abbandonato dalla mamma e che se lo avessimo levato dalla sua scatola sarebbe morto, perché gli sarebbe mancato l’ossigeno.
Donna indegna, esattamente come questa cover.
Però, però, però… c’è un però. Ce ne sarebbero mille, in verità.
Lo strumento che senti si chiama calliope, un organo a vapore parecchio utilizzato nel panorama della musica circense (almeno fino al XIX secolo) dal suo suono sia irritante che dopante. Uno dei fattori che contribuisce a rendere quest’ascolto portatore di una nebbiosa scia di lesione in puro stile Teletubbies.
Se ne esce vivi? Nì. Ma risparmi sugli psicofarmaci, provare per credere.
10. HANS KOLLER – “RELAX WITH MY HORNS”
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Se di clown non ne hai avuto abbastanza, scarta quest’ultima raffinatezza: il classico esempio di come una copertina sinceramente brutta scoraggi facilmente anche il più impavido degli ascoltatori. Qui l’angoscia si taglia con un coltello da burro.
Se il sassofonista jazz Hans Koller fosse ancora vivo, gli si domanderebbe Warum hast du das getan, Hans?
E sì, Hansuccio: perché lo hai fatto?
Il termine relax, qui, assume connotati più relativi che mai. Però l’album è bello, ma bello sul serio e merita di essere divorato!