Nell’antica Grecia la parola Kátharsis voleva dire purificazione. Un vero e proprio risanamento di corpo ed anima che portava all’ascesi: la più alta elevazione morale. Per Aristotele, la catarsi aveva poi reali proprietà terapeutiche, tant’è che per lui assistere alla rappresentazione di una tragedia permetteva allo spettatore la pathemáton kátharsin, ossia la completa purificazione dalle proprie passioni. Per il filosofo greco, infatti, la riproduzione di eventi tragici, sanguinosi e luttuosi – tramite il pathos – li sublimava, generando quel sentimento di pietas misto a terrore ed orrore che serviva all’uomo per liberarsi da quelle determinate emozioni, ma anche e soprattutto rendeva più lievi le angosce quotidiane. Questo concetto aristotelico di catarsi come terapia è stato poi ripreso dalla psicoanalisi, inteso però come liberazione da un trauma, da un conflitto interiore o da un disagio, facendo riemergere dalla mente del paziente l’origine di quel conflitto o trauma.
A pensarci bene, una sorta di Catarsi si cela anche in quell’istintivo desiderio della mente umana che ci porta a voler vedere e conoscere il dolore, la paura ed il male per poterli, infine, esorcizzare. Non a caso, i film di guerra, di tragedie, gli horror, i thriller ed i casi di serial Killer, ci attraggono fortemente. Questo perché il macabro, non solo ci spinge a conoscere i meccanismi più reconditi della nostra mente riguardo i suoi istinti più violenti e crudeli, ma genera in noi quello sgomento, quel disagio e quello sdegno che non solo minimizzano le nostre sofferenze quotidiane, ma che ci fanno innalzare moralmente rispetto a chi il male lo ha commesso. Finché si tratta di finzione è tutto abbastanza comprensibile. Il problema si pone, però, quando il dolore diventa reale ed oggetto di spettacolarizzazione da parte di mass media e social media. Nel mondo a noi contemporaneo, altamente tecnologico, ma umanamente sempre più povero, l’apparenza ha ormai superato talmente tanto la sostanza che una cosa diventa reale solo se dimostrata ed ostentata e questo può diventare un serio problema. Poiché tutti si sentono ormai giustificati a rendere virali i peggiori esempi di atrocità che un essere umano può compiere verso i propri simili o verso qualsiasi altro essere vivente, Meta si è trovata costretta ad assumere dei moderatori per visionare e censurare i video e le immagini dai contenuti violenti.
Questo, però, ha mostrato uno dei tanti effetti che la diffusione indiscriminata di scene violente può avere sul cervello umano. Secondo un recente articolo di Europa Today, infatti, la maggior parte dei moderatori di Meta – dopo ore ed ore di esposizione ad immagini brutali come omicidi, torture, stupri e suicidi – ha accusato seri problemi di natura post traumatica, tanto da essere costretti non solo a lunghi congedi di malattia e ad adeguate cure psicologiche, ma anche a fare causa a Meta. Ma perché la cosiddetta Pornografia delle immagini e del dolore ha preso così tanto piede nella nostra società? Perché ormai gli stessi giornali, telegiornali e cronisti di qualsiasi genere per rendere più veritiero e reale un fatto di cronaca hanno bisogno di mostrare i particolari più raccapriccianti e cruenti di quel fatto, senza rispetto né per lo spettatore, né per le vittime e né per i familiari di queste ultime?
A spiegarlo c’ha provato nel 2003 la saggista e attivista per i diritti civili Susan Sontag con il suo libro intitolato Davanti al dolore degli altri. Riflettendo sulla potenza, potenzialità e sui limiti delle immagini con soggetto scene di orrore e di violenza, l’autrice affronta il rapporto tra la fotografia e le scene di guerra, analizzando il legame che esiste tra il dolore, chi il dolore lo vive e chi, invece, il dolore lo osserva.
La Sontag ci mostra come la fotografia non sia mai completamente un mezzo neutrale nel raccontare il dolore e le atrocità. Le fotografie, infatti, narrano una storia, ma questa storia è sempre condizionata dal punto di vista di chi la fotografa in base al proprio giudizio personale, al proprio vissuto e in base ai propri valori morali e culturali. È il fotografo, quindi che indirizza l’attenzione su ciò che vede e vive e su quale dolore deve predominare nella sua narrazione per immagini. Indipendentemente dal fatto che nasca per suscitare repulsione e degno verso la violenza che ritrae, la fotografia “ è dunque al tempo stesso una registrazione obiettiva, ma anche una testimonianza personale”. Le fotografie, inoltre, cambiano anche in base ai valori morali e culturali di chi quelle foto vuol divulgare e a chi quelle foto sono indirizzate. In merito, la Sontag afferma: “Queste immagini sono un invito a prestare attenzione, a riflettere, a imparare, a esaminare le razionalizzazioni della sofferenza di massa offerte dai poteri costruiti. Chi ha causato ciò che la foto mostra? Chi è il responsabile?”. Un esempio eclatante di ciò lo stiamo avendo in questi giorni nella narrazione del conflitto in Medio Oriente. L’Occidente si sente ancora così in colpa per la Shoah, da giustificare le azioni compiute da Israele dopo l’attentato subito il 7 ottobre, tacciando di antisemitismo chiunque mostri e denunci con immagini i crimini di guerra che Israele sta compiendo sulla popolazione palestinese della Striscia di Gaza.
Un altro fattore da tenere sempre in conto è anche quanto lo spettatore sia davvero partecipe emotivamente al dolore rappresentato o se il suo interesse sia più di natura voyeurista. Per la Sontag è proprio l’ambivalenza insita dell’animo umano fra questi due aspetti ad aver dato vita alla pornografia del dolore e alla sua spettacolarizzazione. Per non parlare del fatto che nella società contemporanea, anche il dolore è diventato monetizzabile , incentivando ulteriormente la sua diffusione . Questo bombardamento mediatico di immagini cruente e di sovraesposizione all’orrore, ha, per la Sontag un grande rischio: l’abitudine. Siamo talmente assuefatti a vedere bambini che muoiono annegati durante una traversata in mare come fu per il piccolo Aylan nel 2018, o corpi e città dilaniati dai bombardamenti come sta accadendo a Gaza e prima ancora in Ucraina o in Siria che stiamo perdendo la nostra empatia ed umanità. Più ci abituiamo alla violenza e più la normalizziamo. Dopo un primo momento di sdegno, compassione e commozione, chiudiamo gli occhi, ci voltiamo dall’altra parte e non lottiamo non denunciamo e reagiamo più ad essa. La soluzione? Forse un’ecologia o un’etica delle immagini violente per far diminuire la loro esposizione, anche se ciò non diminuirà certo l’orrore che c’è nel mondo.
Il problema principale però è che, forse, non riusciamo davvero a comprendere in pieno ciò che non viviamo in prima persona, dato che come affermava De André nel brano Disamistade: “Per tutti il dolore degli altri è dolore a metà”.
Abbiamo davvero bisogno di vedere le immagini degli ospedali distrutti di Gaza per capire che si stanno trucidando persone innocenti e per comprendere il dolore di chi si sta vedendo togliere tutto? Se è vero che le immagini di guerra servono come denuncia e monito a non ripetere la storia, perché le immagini della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki fungono ancora deterrente per un possibile conflitto atomico, mentre le immagini della Shoah no ad impedire nuovi crimini di guerra e un nuovo genocidio? Perché prima eravamo tanto vicini alla popolazione ucraina per ora dimenticarcene e puntare l’attenzione su un nuovo (in realtà vecchio di decenni) conflitto? Abbiamo davvero così poca memoria quando un cosa non ci tocca direttamente?
L’unica soluzione per non abituarci all’orrore e a renderlo ordinario, sarebbe ricordarci cosa ci rende umani, cioè, l’empatia. Empatia, dal greco en-pathos , il cui significato vuol dire: sentire dentro le emozioni degli altri. Se fossimo di nuovo capaci di allenarci all’empatia potremmo dare una nuova accezione positiva alla frase Per tutti il dolore degli altri è dolore a metà perché vorrebbe dire non più sminuire il dolore degli altri se non ci tocca da vicino, ma compartecipare a quel dolore come se fosse per metà nostro.