Recentemente, una cospicua lista di deputati italiani di Fratelli d’Italia, capitanati dal vice-presidente della Camera Fabio Rampelli, ha presentato una proposta di legge il cui titolo recita così:
Disposizioni per la tutela e la promozione della lingua italiana e istituzione del Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana.
La proposta, depositata tra gli atti parlamentari (che potete leggere qui), ha suscitato non poco scalpore nell’opinione pubblica. Del resto, il governo Meloni pare abbia conseguito un record di opinabili argomenti e proposte in soli sei mesi di esecutivo.
Ma entriamo nello specifico del testo, cerchiamo di capire di cosa si tratta.
Onorevoli colleghi. Bla bla bla. La lingua italiana… la Nazione…. la Patria… etc. – ad un certo punto, viene tirata dentro (coattamente) la famigerata Accademia della Crusca , di cui si dice testualmente:
Sono ormai anni che studiosi, esperti e istituzioni come l’Accademia della Crusca denunciano il progressivo scadimento del valore attribuito alla nostra lingua e segnalano l’importanza di una maggiore tutela dell’italiano e del suo utilizzo anche nella terminologia amministrativa da parte dello Stato, delle sue articolazioni territoriali e degli strumenti di diffusione culturale pubblici e a partecipazione pubblica, come la RAI.
Peccato che il presidente dell’Accademia, Claudio Marazzini, abbia prontamente dichiarato: La proposta di sanzionare l’uso delle parole straniere per legge, con tanto di multa, come se si fosse passati col semaforo rosso, rischia di vanificare e marginalizzare il lavoro che noi, come Crusca, conduciamo da anni allo scopo di difendere l’italiano dagli eccessi della più grossolana esterofilia, purtroppo molto frequente.
Tralasciando il vizietto degli esponenti di governo di fare appello a personaggi o istituzioni rinomate senza consenso, e usando a proprio agio le parole e le azioni degli stessi, è chiaro che il tentativo di penalizzare l’utilizzo di forestierismi abbia radici di natura, per lo più, ideologica.
Cerchiamo, però, di analizzare prima il problema dal punto di vista della storia linguistica.
Prima di tutto, la lingua è un dispositivo vivo e non vive isolata, ma in perpetuo contatto con le altre lingue nazionali. Gli scambi linguistici non avvengono per forza dentro i confini di una nazione, ma si realizzano attraverso vari canali, che non presuppongono la vicinanza geografica. Un esempio eloquente è la lingua inglese: di fatto, nessun Paese la cui lingua nazionale sia l’inglese confina con l’Italia. La lingua pertanto viene trasmessa attraverso diversi dispositivi culturali e non: i libri, i media, i social media, le spedizioni militari, gli spostamenti, il commercio, le migrazioni.
La relazione tra lingue e quindi tra parlanti di lingue diverse produce dei fenomeni che divideremo in prestiti e calchi.
Per intenderci brevemente, la parola tram è stata accolta nella lingua italiana nel 1872 dall’inglese tramway car: questo è un prestito, come anche la comunissima parola computer. Invece, se pensiamo a parole come grattacielo capiamo come sia il risultato di un calco-traduzione sempre dall’inglese skyscraper.
Faremo un’altra breve e utile distinzione, quella tra prestiti di necessità e prestiti di lusso. I primi fanno riferimento a parole arrivate insieme ad un’idea, ad un oggetto, ad una funzione, per esempio la parola caffè che viene dal turco ed è arrivata in Italia insieme al prodotto nel Seicento, ma anche la locuzione social media può essere annoverata tra questi; tra quelli di lusso figurano parole come pesticida (dall’inglese pest) in luogo dell’esistente italiano insetticida. Sostanzialmente, si tratta di una distinzione di funzionalità, l’una irrinunciabile, l’altra evitabile.
Nel solco di questa tecnica, ma utile distinzione sono sorte nel corso del tempo problematiche di natura ideologica e censoria. Nell’Ottocento, per esempio, il tentativo di osservazione dei francesismi si è tradotto in una vera e propria reazione purista, che ha dato vita a vere e proprie liste di parole da proscrivere. Un’altra famosa manifestazione ideologica di stampo purista si è verificata in epoca fascista.
La politica linguistica del ventennio fascista era chiara e chiaramente autoritaria. I principali nemici del linguista fascista medio erano i forestierismi, le minoranze etniche e i dialetti: una battaglia condotta in nome dell’autarchia culturale e linguistica. Concentrandoci sulla lotta ai forestierismi, è possibile notare un’escalation (termine ormai entrato nel gergo comune) di iniziative combinate insieme da un chiaro principio di intolleranza.
Si partì dalle prese di posizione dei singoli – per esempio il libro di tale Paolo Monelli, dal titolo parlante Barbaro dominio, che prendeva estrema posizione contro i forestierismi -, fino ad arrivare alla soppressione nel 1930 delle scene in lingua straniera nei film e alla legge del 1940 che vietava l’uso di parole straniere nelle attività professionali e pubblicitarie. L’impresa fu coadiuvata dall’intervento di diversi intellettuali, uno ad esempio di tutti, Gabriele D’Annunzio che propose la sostituzione della parola cognac con arzente.
Vale la pena menzionare anche la campagna del febbraio 1938 per l’abolizione del lei a favore del più romano tu.
Finora si era creduto che, alla luce dei balordi tentativi xenofobi attuati in epoca fascista, nessuno si volesse mettere in una linea di continuità con quello che era reputato quasi un tabù. E invece …
A voler essere intellettualmente onesti, l’Italia del governo Meloni non è la sola nazione purista in Europa. La Francia, ad esempio, è sempre stata una nazione molto conservatrice dal punto di vista linguistico, e il suo organo istitutore della lingua, l’Académie Française, ogni anno, da centinaia di anni, evita puntualmente di pubblicare all’interno del suo Dictionnaire termini stranieri, senza minimamente prendere in considerazione le volontà e gli usi dei parlanti.
Un vizio di grande tradizione è quello francese, a cui si aggiunge, la decisione dello scorso anno di eliminare definitivamente dall’uso, almeno per i dipendenti statali e nei documenti ufficiali, termini inglesi derivati dai videogiochi. Questa è stata la mossa del Ministero della Cultura che insieme alla Commission d’enrichissement de la langue française ha dichiarato le sostituzioni da adottare: la ormai usuale parola streamer diventata joueur-animateur en direct, e ancora jeu video de competition per e-sports.
L’Académie française aveva già condotto una battaglia di questo genere contro il franglais (termine coniato dalla stessa Académie), nel 2017, pubblicando un lessico di termini francesi con cui sostituire l’inglese nei videogiochi, anche se, questa volta, i suggerimenti sono stati resi ufficiali e vincolanti dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. La guerra linguistica francese sembra tuttavia avere radici molto profonde: già dal 1994 la legge Toubon sull’uso della lingua francese prevedeva, infatti, l’obbligo di utilizzo della lingua francese nei settori di servizio pubblico, e punisce l’uso di parole straniere qualora esista un termine francese corrispondente.
Ciò che sfugge ai legislatori e ai normalizzatori è la sacrosanta autorità del parlante. Nessun organo istituzionale potrà mai in alcun modo tenere sotto controllo gli usi della lingua. A mio modesto parere, equivarrebbe ad una limitazione della libertà personale.
Mi affido volentieri alle parole di Giacomo Leopardi, che nel suo Zibaldone, il 18 aprile 1882, scriveva:
Rinunziare o sbandire una nuova parola o una sua significazione (per forestiera o barbara ch’ella sia) […] non può esser meno che rinunziare o sbandire, e trattar da barbara e illecita una nuova idea, e un nuovo concetto dello spirito umano.
Fonti consultate
Marazzini C. (1994). La lingua italiana. Profilo storico. Il Mulino.