Chi sfogli appena l’immane corrispondenza di Lovecraft troverà praticamente ovunque minuziose descrizioni dei suoi sogni, i quali annotava anche altrove, in un taccuino, e utilizzava come spunto per i suoi racconti, lamentando per di più spesso che il problema intrinseco a una loro trasposizione precisa in weird fiction fosse puramente l’elaborazione della trama, perché suo scopo non era ricavarne poemi in prosa. Altro impedimento a una attività da lui considerata estremamente creativa era il risveglio: dopo aver descritto ad esempio in una lettera a R. Kleiner (21 novembre 1920) un sogno abbastanza apocalittico in cui qualcosa discende dall’alto, dal cielo, su Providence in una nube di fumo, con la marea che si abbassa in modo orribile, la gente che scappa ammassata in preda al panico urlando: “È venuto! È venuto!” (mentre lui invece va più vicino perché era più incuriosito che spaventato), la cupola della Chiesa Congregazionista che si spacca in perfetto silenzio e scompare alla vista divisa in mille frammenti, proprio al gridare della popolazione in fuga in un modo quale solo i dannati dell’Inferno potrebbero, lui si sveglia, dannata sfortuna, col più diabolico dei mal di testa.
Dei suoi sogni vividi, orrorifici e persistenti, così parla a W. Conover (10 gennaio 1937):
Le radici dei miei sogni ricorrenti affondano molto lontano nel tempo. […] Circa i tre quarti di essi sono ambientati nella casa della mia nascita, […] ma le scene realistiche frequentemente sfumano in panorami fantastici, e includono paesaggi naturali e architettonici che ben difficilmente potrebbero trovarsi su questo pianeta.
In queste città dall’architettura bizzarra, non di questo mondo, prova un senso potente di distanza infinita. Scrive inoltre a D. Wandrei (21 aprile 1927):
Come nel tuo caso, il cielo esercita un grande fascino su di me; e l’intrecciarsi di sogni assurdi sulle profondità inesplorate, sui soli e sui mondi, non viene assolutamente impedito dai precisi dati astronomici che il mio lato scientifico richiede. In realtà, non c’è nulla nella nuda verità sul cielo che ne aumenti piuttosto che diminuire il timor panico davanti alle sue immensità insondabili e indescrivibili… Spesso, peraltro, ho desiderato possedere sufficiente forza letteraria per evocare visioni di entità provenienti da sconfinati e remoti reami al di là degli universi della materia e dell’energia; là dove il vivo intercomporsi di forze sconosciute e inconcepibili conferisce immensa e favolosa attività ad aree dimensionali che non possiedono forma e a nuclei di complesse aggregazioni che non hanno mente.
Poiché (Time and Space, 1918):
nulla disturba più profondamente il nostro radicato egoismo e l’importanza che attribuiamo a noi stessi della consapevolezza […] dell’insignificanza assoluta che assume la posizione dell’uomo rispetto al tempo e allo spazio.
Per sottolineare altrove (Notes on Writing Weird Fiction, senza data) che tramite la scrittura del racconto weird riesce a abbandonarsi:
seppure nella fugacità di un attimo, all’illusione di una misteriosa sospensione o violazione delle irritanti limitazioni del tempo e dello spazio, nonché della rigida legge della natura che perpetuamente ci imprigiona frustrando la nostra curiosità verso gli infiniti spazi cosmici che si estendono aldilà delle nostre capacità visive e analitiche. Solitamente questi racconti pongono l’accento sull’elemento dell’orrore, essendo la paura l’emozione più intensa e profonda che l’uomo sia in grado di provare, e altresì quella che meglio si presta alla creazione dell’illusione di poter sfidare la natura. L’orrore è sempre strettamente congiunto all’ignoto e all’insolito, sicché non è facile impresa creare una convincente rappresentazione della trasgressione delle leggi naturali e di alienazione cosmica o “estraneità”, senza porre l’enfasi sull’emozione della paura. La ragione per la quale il tempo svolge un ruolo predominante in numerosi dei miei racconti, risiede nell’oscura presenza di tale elemento nella mia mente, ove è concepito come l’entità più profondamente drammatica e ferocemente terribile di tutto l’universo. Il conflitto col tempo mi appare perciò come il tema più efficace e fecondo dell’intera espressione umana.
(Si sarà peraltro notata soprattutto in questo ultimo estratto, sia detto di volata, una certa reminiscenza à la Burke, benché di diverso sapore, naturalmente: Lovecraft si formò sui testi settecenteschi della biblioteca di famiglia, i quali ne plasmarono spesso lo stile.)
Questo conflitto col tempo è tra le basi del suo orrore cosmico, perché se i sogni sono più antichi della meditativa Tiro, della Sfinge contemplativa, di Babilonia cinta di giardini (The Call of Cthulhu, 1926), è pur vero che quando le stelle sono nella giusta posizione i confini tra sogno e realtà saranno spezzati e l’orrore fluirà libero nel mondo. In questo senso, psicologicamente e esistenzialmente ma – coscientemente – senza vicinanza d’approccio al decadentismo di Baudelaire, le stelle sono già nella giusta posizione, tanto nei racconti, come nel Richiamo di Cthulhu:
Ritengo che la cosa più misericordiosa al mondo sia l’incapacità della mente umana di mettere in relazione i suoi contenuti. Viviamo su una placida isola di ignoranza nel mezzo del nero mare dell’infinito, […] ma un giorno la connessione di conoscenze disgiunte aprirà visioni talmente terrificanti della realtà e della nostra spaventosa posizione in essa che o diventeremo pazzi per la rivelazione o fuggiremo dalla luce mortale nella pace e nella sicurezza di un nuovo Medioevo.
Quanto, emblematicamente, la stessa Stella Polare (Polaris, 1918), la quale
malvagia e mostruosa, […] spia dalla volta oscura, ammiccando odiosamente simile a un folle occhio vigile che si sforzi di comunicare un messaggio, ma che nulla rammenti oltre al fatto che abbia un messaggio da comunicare.
(Traduzioni di G. Pilo e S. Fusco, con adattamenti miei)