Resistere al populismo nell’era dei social: una battaglia femminista

Viviamo un’epoca di connessione perenne, un tempo in cui la tecnologia sembra offrirci tutto: informazioni, comunità, voce. Ma cosa succede quando quello che credevamo uno strumento di libertà diventa un mezzo di controllo? Quando gli spazi digitali, che dovrebbero accoglierci e amplificare le nostre voci, si trasformano in un ecosistema in cui il potere si concentra sempre di più, lasciando a noi solo l’illusione di poter scegliere?

Non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me. Questa frase – sintesi estrema ma puntuale dell’idea di populismo che il cavaliere incarnava alla perfezione -, erroneamente attribuita a Giorgio Gaber, in realtà del cantautore Gian Piero Alloisio, mi torna spesso in mente mentre osservo come il populismo e le piattaforme tecnologiche si intreccino in modi sempre più insidiosi. Non è una paura distante, un concetto astratto: è un’inquietudine concreta, che cresce ogni volta che vedo il dibattito pubblico ridursi a slogan, le verità sfaldarsi in un mare di disinformazione, la politica farsi spettacolo di emozioni manipolate.

Negli ultimi anni, abbiamo assistito all’ascesa di figure politiche che hanno saputo sfruttare le dinamiche del digitale per consolidare il proprio potere: Donald Trump negli Stati Uniti, qualche anno fa Jair Bolsonaro in Brasile, leader che hanno trasformato i social media in strumenti di propaganda diretta, superando i canali tradizionali e costruendo una relazione con il pubblico basata sulla polarizzazione e sulla creazione di un nemico. Per esempio, un articolo di The Guardian del 21 febbraio 2025 discute l’alleanza tra Andrew Tate e l’amministrazione Trump, evidenziando come figure controverse abbiano utilizzato i social media per amplificare le posizioni di altrettanto discutibili leader politici. Vale la pena citare anche il rapporto del Comitato per il Digitale, la Cultura, i Media e lo Sport (DCMS) del parlamento del Regno Unito intitolato Disinformation and ‘fake news, che ha esaminato l’impatto della disinformazione nel contesto del referendum sulla Brexit, analizzando l’influenza di attori stranieri e l’uso di piattaforme digitali per diffondere informazioni fuorvianti.

Ma il problema non è solo politico. È sistemico. Quando Elon Musk ha acquistato Twitter nel 2022, molte delle sue modifiche hanno creato un ecosistema in cui la libertà di espressione si confonde con il diritto a diffondere odio e disinformazione. Secondo un’analisi pubblicata sempre su The Guardian, la sua gestione ha favorito un aumento delle narrazioni complottiste e ha ridotto la visibilità di voci critiche nei confronti del potere. Ed ecco che la tecnologia, invece di democratizzare l’accesso all’informazione, si trasforma in uno strumento di esclusione e manipolazione.

Donald Trump, però, merita una menzione a parte. Lui non ha bisogno nemmeno di algoritmi per distorcere la realtà: la manipola direttamente, con il suo atteggiamento da bullo. Il 28 febbraio 2025, ha incontrato alla Casa Bianca il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Un incontro che avrebbe dovuto rafforzare i legami tra Stati Uniti e Ucraina, in un momento storico in cui l’aggressione russa continua a mietere vittime. Ma la realtà è stata ben diversa. Quando Zelensky ha rifiutato di cedere a pressioni simboliche (l’abbigliamento, il riferimento alla terza guerra mondiale e altro ancora), la discussione si è trasformata in una dimostrazione di potere. Trump, con il suo solito atteggiamento da padrone della scena, ha cercato di umiliarlo, suggerendo che l’Ucraina avrebbe dovuto fare un passo indietro nei negoziati di pace.

Non è solo una questione politica. È il solito schema di dominio e prepotenza che vediamo ogni giorno nelle dinamiche di potere: chi è più forte impone le proprie condizioni, chi resiste viene messo in un angolo. E quando Zelensky ha rifiutato di piegarsi, l’amministrazione Trump ha reagito con stizza, interrompendo bruscamente l’incontro, annullando la conferenza stampa congiunta e cacciando la delegazione ucraina dalla Casa Bianca.

Non si tratta solo di geopolitica. È il modello del potere autoritario che si ripete ovunque: nel modo in cui le destre populiste trattano le donne, le minoranze, i dissidenti. È il linguaggio del bullismo, della sottomissione forzata, dell’uso del potere a scapito dell’Altro.

Da cittadina del mondo e femminista, questa deriva mi preoccupa profondamente. Perché vedo un pattern ricorrente: ogni volta che il potere si rafforza in modo autoritario, i diritti delle donne e delle minoranze diventano i primi bersagli. Il linguaggio dell’ultranazionalismo si intreccia con quello del sessismo, dell’omofobia, del razzismo. Il web, nato come spazio orizzontale, si sta trasformando in una rete sempre più sorvegliata e gerarchica, dove le voci che disturbano vengono silenziate o sommerse da un’ondata di odio – la nota shitstorm.

E allora, come si resiste? Non è una domanda retorica, è la domanda che mi faccio ogni giorno. Come si combatte un sistema che sembra così pervasivo, così radicato nelle strutture di potere?

Penso che la risposta possa trovarsi innanzitutto nell’educazione digitale. Non basta sapere usare la tecnologia, dobbiamo imparare a comprenderla davvero: riconoscere le strategie di manipolazione, decifrare gli algoritmi che determinano cosa vediamo e cosa no, proteggere la nostra privacy in un contesto in cui ogni dato può diventare una merce. Le donne, in particolare, sono spesso più esposte a queste dinamiche: vittime di campagne di disinformazione sessista, di molestie online, di tentativi sistematici di delegittimazione. Eppure, l’educazione digitale raramente tiene conto di queste specificità, lasciandoci ancora più vulnerabili.

C’è poi la questione delle piattaforme alternative. Se il problema è la concentrazione del potere in poche mani, dobbiamo iniziare a costruire spazi diversi. Ci sono già iniziative in questa direzione: progetti di social network decentralizzati (per esempio, Mastodon), piattaforme femministe di informazione (una tra tutte MedFemiNiswiya, una piattaforma multimediale online che pubblica contenuti in arabo, inglese e francese, dedicata alle cause, storie, successi e battaglie delle donne nei paesi del Mediterraneo), ma anche esperimenti di comunicazione che non dipendono dai grandi colossi del tech come A New Social, un’organizzazione no-profit che mira a promuovere l’interoperabilità tra diverse piattaforme sociali facilitando la connessione tra utenti su diverse reti. Anche nel campo della navigazione web esistono alternative etiche, come Ecosia, che trasforma ogni ricerca online in un contributo concreto alla riforestazione globale. Utilizzando i profitti pubblicitari per piantare alberi nelle aree colpite dalla deforestazione, Ecosia propone un modello economico che non si limita a massimizzare i guadagni, ma reinveste nel benessere del pianeta.

Ma perché queste alternative abbiano un impatto reale, serve una scelta collettiva: dobbiamo disinvestire dai sistemi che ci opprimono e sostenere attivamente quelli che ci offrono modelli diversi. Le lotte per un web più etico, per la giustizia climatica e per la libertà dall’oppressione economica e sociale sono profondamente intrecciate: costruire spazi alternativi significa anche riconoscere che ogni battaglia per un ecosistema più giusto contribuisce a una trasformazione politica più ampia e condivisa.

E poi, c’è appunto la dimensione politica. Pensiamo che la regolamentazione del digitale sia un tema tecnico, lontano dalle nostre vite, e invece è una delle battaglie più cruciali del nostro tempo. Chi decide quali contenuti sono visibili e quali no? Chi controlla i dati che produciamo ogni giorno? Chi ha il potere di modellare l’opinione pubblica attraverso gli algoritmi? Servirebbero leggi che limitino l’uso predatorio delle informazioni personali, che garantiscano il pluralismo digitale, che impediscano la trasformazione dei social media in strumenti di sorveglianza e manipolazione.

Ma, soprattutto, serve costruire alleanze. Non possiamo affrontare questa sfida da sole. I movimenti femministi, ambientalisti, per i diritti civili e sociali hanno un nemico comune: un sistema – che risponde al nome di patriarcato – che concentra il potere, che sfrutta la tecnologia per perpetuare le disuguaglianze, che trasforma il dissenso in un problema da gestire invece che in una risorsa per la crescita collettiva. Solo unendo le forze possiamo avere un impatto reale, occupare gli spazi digitali in modo strategico, riscrivere le regole del gioco.

Lo abbiamo già fatto. Lo vediamo nei movimenti dal basso che hanno usato la tecnologia per creare cambiamento reale: da Fridays for Future di Greta Thunberg, che ha mobilitato milioni di persone, al movimento #metoo che ha dato vita a Non Una di Meno, trasformando le piattaforme digitali in strumenti di lotta contro la violenza di genere. A questi esempi più famosi, si può aggiungere Feminist Frequency, un progetto fondato da Anita Sarkeesian che ha rivoluzionato il modo in cui le donne affrontano il sessismo nei media e nei videogiochi. Attraverso analisi critiche e materiali educativi, Feminist Frequency ha contribuito a smascherare le narrazioni misogine radicate nella cultura pop e ha creato spazi di discussione fondamentali per la lotta femminista online. Il lavoro di questi progetti dimostra che la tecnologia può essere uno strumento di emancipazione se usata con consapevolezza e strategia. Sappiamo quindi che è possibile, perché lo abbiamo già visto accadere.

E allora, la paura non deve fermarci, ma spingerci all’azione. Se c’è un rischio che dobbiamo temere, non è solo quello rappresentato da chi detiene il potere, ma quello che si nasconde nella nostra stessa passività. La tecnologia può essere un’arma del dominio, ma può anche essere lo strumento della nostra liberazione. Dipende da noi.

Per approfondire:

  • Feminist Data Manifest-No: un documento che articola rifiuti e impegni verso pratiche di dati più giuste. Disponibile su manifestno.com.
  • Algorithms of Oppression di Safiya Umoja Noble: un libro che esplora come i motori di ricerca rafforzino il razzismo e il sessismo.
  • Data Feminism Network Podcast: una serie di discussioni su come l’analisi dei dati possa beneficiare da prospettive femministe.
  • The Social Dilemma: un film documentario che esamina l’impatto dei social media sulla società e sulla democrazia.
  • Bruises – The Data We Don’t See di Giorgia Lupi e Kaki King: l’incontro tra una information designer e una musicista che raccontano il dolore attraverso la musica e il linguaggio dei dati.

Queste risorse offrono approfondimenti su come navigare e sfidare le complesse intersezioni tra tecnologia, potere e giustizia di genere. Alla prossima!

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