Se potessi avere mille lire al mese, senza esagerare, sarei certo di trovare tutta la felicità!
Era il 1939 quando Gilberto Mazzi cantava queste parole, in uno di quei motivetti foxtrot accattivante, di quelli che farebbero muovere le natiche anche al più ingessato signorotto con un panama in testa e doppiopetto a sei bottoni. Nei Trenta, le mille lire profumavano di caveau di realizzazione economica e coronavano il sogno piccolo-borghese. Con uno stipendio come quello potevi camparci serenamente e, all’occorrenza, sollazzarti quel tanto che basta senza il pressante rischio di andare in bolletta, nel frattempo.
a.D. 2022 – dopo un salto temporale di un’ottantina d’anni, la bolletta c’è eccome e fa tremare più che mai! Basti pensare ai rincari paurosi che già stanno prendendo piede: da gas ed energia elettrica che fanno abbassare le saracinesche a molte attività, alla pasta sugli scaffali dei supermercati. Che poi capirai, vai ad aumentare giusto quella ad un italiano e lo spingi direttamente verso l’orlo del precipizio…
Ironia a parte – giusto per sdrammatizzare i tempi bui, Lettore caro Lettore – questo sarebbe un mondo da favola se al sovrapprezzo corrispondesse un aumento degli stipendi. E la pasta di cui sopra, Bressanini – il caro chimico di quartiere – già nel 2017 ci svelava che era possibile cucinarla così, senza amore patriottico né gas.
Una cosa va pur detta: al contrario degli anni Trenta, puoi anche non essere benestante e, nonostante ciò, permetterti di tutto. Chiaramente si fa per dire, ma è innegabile che la maggior parte dei beni di consumo li si possa trovare a portata di mano nella loro versione più cheap. Ed è un’alternativa ampiamente valutata ben prima di tutte queste vicissitudini che ci stanno succedendo.
Potremmo colpevolizzare la psicologia della pubblicità scandita al martellante ritmo dell’identificazione, in grado di generare ad una vibrazione subcosciente il bisogno di status che di colpo ti fanno trovare necessaria anche la stronzata di cui pensavi non avresti mai avuto la minima necessità, tipo un dispenser per sapone a forma di lumaca gigante.
Sta di fatto che quest’epoca dello spreco ha forgiato una nuova classe di combattenti : gli accumulatori seriali. Costoro acquistano la qualsiasi a prezzi imbattibili – paghi 1 e prendi 100 – perché qualche povera anima sciagurata lavora da sottopagata in qualche parte del globo (famola spicciola, del Terzo Mondo). Prendi ad esempio il guardaroba un tempo limitato all’abito da giorno/lavoro e quello buono sfoggiato alla domenica in chiesa, che ormai è un lontano ricordo in cambio di armadi riempiti fino a scoppiare e agnosticismo.
Il futuro è qui, ed è ORA.
E porta il nome di capitalismo, baby!
Ci colpa la fast-fashion, che è un po’ la Mater Omnium Malorum: l’arte – in senso bellamente negativo – della moda veloce, quella mordi e fuggi perfezionata da brand come Zara e ripresa da molti altri. L’obiettivo è quello di produrre capi a velocità supersonica sfruttando la forza lavoro a basso costo e materiali di poco valore e di proporre, ogni primo giorno della settimana, rifornimenti assassini dei propri store : per intenderci, quegli stracci tanto sintetici da fondersi indissolubilmente alla pelle al primo accenno di calore, o che finiscono per logorarsi nel giro di una stagione. Soldi buttati? Proprio così! Basterebbe un calcolo banale per rendersi conto di quanto sia meglio investire in un capo, i cui materiali sono qualitativamente superiori e che sì, ti costa un po’ di più. Almeno ti dura più del battito del cuore di una farfalla. Colossi come Shein, sovente, possono pure permettersi il lusso di farti tenere i vestiti che decidi di rendere, dato che costerebbe più la spedizione che l’effettivo valore dello stesso prodotto. Questo dovrebbe far riflettere.
Illuminante Camilla Mendini – youtuber che promuove scelte più sostenibili – che in questo video illustra ampiamente il concetto oltre a dispensare molti altri consigli utili per quanto riguarda la moda sostenibile (come anche la spesa al supermercato, in una metropoli cara come New York) che può farti risparmiare qualche spicciolo oltre a farti recuperare un barlume di consapevolezza lì, perso nel web tra micetti ed il Je suis di turno.
Al di là della moda, un po’ tutti – chi più, chi meno – abbiamo la casa stipata di una schifezza in qualsiasi forma la si intenda concepire.
Roba di cui non abbiamo realmente necessità, ma che s’inserisce nell’orbita della nostra esistenza e continua a rotearci fra i piedi, a privarci dello spazio vitale e, che, invetabilmente, accumula quantità inimmaginabili di polvere.
Ma al quaglio, di cos’è che abbiamo davvero bisogno?
Marie Kondo, giapponesina minuta dal volto bello e gentile e dall’aspetto sempre impeccabile, su questo concept ci ha fondato un’attività di consulenza con oltre 10.000 esperti certificati sotto la sua guida, oltre ad avere all’attivo svariate pubblicazioni editoriali ed una serie tv tutta sua. Il suo metodo KonMari sprona il prossimo a debellare l’accumulo seriale di cianfrusaglie e darsi ad un decluttering selvaggio, che in terminologie più masticabilmente italiche equivale a sbarazzarsi di ciò che abbiamo scordato in un qualsiasi angolo della casa aspettando il momento opportuno di utilizzarlo (cioè mai).
Se quel qualcosa non suscita più in noi alcun tipo di emozione, non sprigiona gioia… beh, allora perché tenerlo? Dicono sia un atto liberatorio anche a livello di spirito, oltre che a far guadagnare spazio prezioso in casa. E nota che con sbazzarsi s’intende anche – e soprattutto – regalare quello che ancora è in buono stato, ma di cui possiamo comunque fare tranquillamente a meno per come sarà pressappoco stato nei precedenti trent’anni in cui ce lo siamo tenuti tra le scatole.
Del resto, quando sono le cose che arrivano a possedere noi e non il contrario, direi che scatta l’interruttore della problematicità.
Siamo vittime dell’acquisto spasmodico che spinge a comprare ancora e ancora per riempire quel certo vuoto cosmico che ci portiamo dentro e sentirci meglio per due nanosecondi. Si chiama shopping compulsivo ed è una patologia a tutti gli effetti.
Questa è anche un po’ la chiave del minimalismo, partito come movimento artistico che vede la luce negli anni ’50 (ed estesosi a numerose discipline, come l’asciuttezza delle composizioni musicali dello statunitense La Monte Young) e nel corso del tempo ha subito l’evoluzione che lo ha portato a diventare anche un life style: in ambo i casi, il fulcro è la tendenza a ridurre al minimo.
Di questi tempi, una filosofia che ti sprona a tagliar fuori dalla tua vita il superfluo non può che essere una boccata d’aria! Poi, ragioniamoci: meno stronzate, meno tempo impiegato a sistemare e spolverare, più tempo da dedicare a ciò che veramente ci fa star bene e dà appagamento. Magari anche alle persone.
E suona con la stessa dolcezza di un passato ormai disperso, il ricordo della voce metallica che recitava “Donne, è arrivato l’arrotino!“. Lo sapevano bene i nostri nonni, che preferivano aggiustare prima di gettar via. Noi ci si può permettere di prendere robe di qualità infima tanto poi oh, “L’ho pagata poco, chissenefrega!”.
In contrapposizione a questo moto di sperpero e spreco i charity shop come l’inglese Oxfam, a cui affidi tutto quello che non usi e che viene venduto devolvendo il ricavato principalmente a ricerca e aiuti umanitari. Il Regno Unito è noto anche per la londinese Portobello Road, il cui iconico market attivo già dal XIX secolo offre cianfrusaglie, antiquariato e abbigliamento retrò ed è una di quelle mete turistiche che ti sprofondano in quel romanticismo vintage e vagheggiante tipo commedia anni ’90 di Hugh Grant. Qui in Italia abbiamo svariati mercatini dell’usato, luogo d’incontro degli amanti delle chicche démodé.
Forse, come società contemporanea, dovremmo decidere di far prevalere obblighi morali (oltre che sociali) che sappiano andare ben oltre il procurarsi oggettistica varia, lasciandoci soffocare dall’ossessione del possesso.
Riappropriamoci dei nostri spazi vitali, per tornare ad esistere.