Gli ultimi anni sono stati segnati dalla massiccia epidemia di Coronavirus (Covid-19) da virus SARS-2-CoV-2, che conta circa 500 milioni di casi in tutto il mondo con 6,1 milioni di decessi certificati (OMS, 16/04/2022 ).
La necessità di dover reinterpretare o reinventare consuetudini sociali e lavorative ha inncescato un forzato, quanto ineluttabile, meccanismo di tecnicizzazione: la parola “smart-working” (SW) è entrata nel vocabolario di ogni giorno, spesso confondendosi col telelavoro o lavoro agile. Una efficace definizione di SW è data da Angelici e Profeta: “Lo smart-working è una modalità di lavoro completamente flessibile, con la capacità di adattarsi in modo rapido e intelligente a diverse situazioni. I lavoratori smart concordano con i loro supervisori di svolgere le proprie attività lavorative per un periodo di tempo definito al di fuori del luogo di lavoro fisico dell’azienda e secondo un programma orario personalizzato.” [1].
Laddove possibile, la delocalizzazione del lavoro d’ufficio verso altri ambienti (più spesso la casa o altri luoghi) ha scoperchiato una pletora di opportunità e di questioni. Le aziende sia per tutelare il dipendente (un dipendente malato, va in malattia e non produce) e la propria reputazione (chi vorrebbe lavorare per chi ignora una crisi globale?) hanno traslato tutti i servizi non contingenti al lavoro “manuale” nell’universo fully digital.
Durante la pandemia è anche emersa una netta distinzione tra i lavori “realmente utili” e quelli “superflui” o “parassitari” e, non sorprende il fatto che i lavoratori essenziali, specialmente nei settori sanitari, trasporto, beni alimentari, lavorazione delle materie prime, insegnanti, badanti et similia, siano stati quelli più colpiti [6] inceppando un delicato macchinario. Questo ha avuto delle conseguenze, tra cui la silenziosa rivolta dei lavoratori che hanno abbandonato il proprio posto in cerca di nuove vie più sostenibili e più umane per sopravvivere.
La mappatura socio-economica durante la pandemia
In questa condizione, è emersa quindi una mappatura sociale ed economica molto netta che ha individuato nelle persone più fragili o con scolarizzazione medio-bassa la fetta di popolazione che ha più sofferto la crisi economica e sanitaria. Al contrario, ruoli accessori detti anche “bullshit jobs”, ovvero quei lavori intermedi assolutamente superflui che non apportano benefici e di cui nemmeno l’impiegato sa spiegarne l’esistenza [4] hanno evidenziato come le categorie più protette (mangers, CEO, recruiters, servizi intermediari) non solo abbiano sofferto meno il dramma sociale e sanitario, ma siano anche quei lavori in cui il coinvolgimento nel return on invested capital (ROIC) (ovvero il guadagno netto dell’azienda in relazione all’investimento), sia sostanzialmente zero, quantificando il loro contributo come “prossimo allo zero” [2].
La già critica condizione dei lavoratori negli States come in Europa ha incrementato drasticamente la pressione in un calderone fatto di elementi tossici come contratti inesistenti, paghe al minimo salariale (o anche meno), ipercompetitività in cui il lavoratore ha perso negli anni potere contrattuale in funzione di una facile sostituibilità. In un paese democratico in cui diritto al lavoro si traduce, di fatto, nel diritto ad una vita dignitosa, il lavoratore si aggrappa al meglio a quella esile fonte di sopravvivenza, tra stratagemmi e sacrifici.
Sacrifici che però i “bullshit workers” non hanno fatto, imponendo ciecamente condizioni impari in un contesto già in crisi, incapaci di cogliere l’occasione per lo sviluppo e miopi ad una lungimirante rivoluzione. E così il lavoratore deve tornare in ufficio fino a dormirci dentro per sostituire il collega malato, mentre il CEO invia le mail comodamente da casa o dalla villeggiatura.
Il valore della classe lavoratrice e la produttività virtuale dei CEO
La pandemia ha fatto riscoprire il valore essenziale della classe media e ha accentuato la già enorme disparità di condizioni tra lavoratori e “boss”. Se a questo si aggiungono i gravi problemi di permanenza del campo visivo dei “boomer boss”, per i quali il lavoratore di Schroedinger “batte la fiacca e lavora allo stesso tempo” se non osservato, ne conviene che il quadro del lavoratore medio diventa insostenibile.
Al lavoratore viene richiesta lealtà, fedeltà, dedizione ed infine una strabiliante performance per fomentare il priapismo delle aziende che sbandierano su Linkedin performances e revenues. Tale strategia serve più a convalidare l’immagine virtuale dell’azienda piuttosto che la “salubrità” della stessa.
A questo gioco perverso della performance si aggiunge il fatto che la misura effettiva della stessa costituisca solo il 5% della paga del CEO [9] e che l’evidente disparità salariale di questi ultimi non sia legata alla loro produttività quanto alla capacità di attrarre firme e stipulare accordi [5]. Da ciò ne consegue che il senso di sfruttamento del lavoratore lo porti inesorabilmente a collassare e ad allontanarsi dal posto di lavoro e dall’idea di lavoro da dipendente. Preferisce, dunque, tentare altre strade o cambiare carriera, di fatto “tradendo” il pactum unionis tra dipendente e azienda.
Allora fattelo da solo: la Great Resignation
Nello scenario in cui il rapporto lavoratore-azienda perde fiducia e le disparità si fanno più evidenti, il dipendente riduce la sua soglia di sopportazione al minimo e non tollera più situazioni tossiche come elenca Perretti: “ disagio, da ambienti di lavoro tossici, da orari di lavoro folli, da condizioni di burnout , ovvero di esaurimento sul piano emotivo, fisico e mentale”[8].
La Great Resignation è la via di fuga da condizioni lavorative disagiate – non solo economicamente – o tossiche in cui non vengono garantiti i diritti contrattuali o spesso vengono manomessi i rapporti vita privata/lavoro, attraverso vili pratiche di micromanagement o richeste di conformità a standard produttivi irrealistici a cui il lavoratore non vuole più sottostare [3]. La pratica del micromanagement, consente al datore di lavoro attraverso software non sempre dichiarati di “osservarti” mentre lavori contando click del mouse o cosa digiti sulla tastiera. Alcuni software invadono la privacy del lavoratore fino a scattare foto dalla webcam, per un controllo compulsivo che inasprisce quella tossicità dei CEO, in un quadro già nero fatto di disuguaglianze e di malcontento.
In aggiunta a questo, vi sono le assurde richieste di “tornare in ufficio” in nome di una socialità familiare aziendale del tutto fittizia (l’azienda non è la tua famiglia), che ignora le esigenze di quel lavoratore che, potendo, preferisce lavorare dal proprio computer di casa anziché viaggiare per ore la settimana.
Il lavoratore in burn-out cerca quindi condizioni più eque, stabili, e condizioni di lavoro salubri in cui è libero di scegliere la forma di lavoro che più gli aggrada prospettandosi futuri avanzamenti di carriera. La risposta delle aziende, purtroppo, salvo alcune eccezioni virtuose, è irremediabilmente corrotta da una visione miope di stampo ottocentesco che vuole vedere il lavoratore chiuso in fabbrica mentre il “boss” si assicura che tutte le viti del meccanismo produttivo siano ben oliate. La risposta del lavoratore è una sola quindi: “fattelo da solo”.
Consapevole dei meccanismi e della mobilità del lavoro tanto cara agli stessi CEO, i lavoratori rivendicano così la loro dimenticata forza contrattuale attraverso l’abbandono (spesso con preavviso minimo) della propria mansione, indipendentemente dalla crucialità del ruolo [7] ostacolando gli obiettivi produttivi e sottraendo il know-how alle aziende che abbandonano, forzandole a nuovi cicli di assunzione e addestramento.
In conclusione, finché i CEO e le aziende non impareranno ad adottare sistemi contrattuali personalizzati ed agili, garantendo pari diritti e condizioni di lavoro più sostenibili (anche in senso ambientale), assisteremo sempre più a fenomeni di abbandono del posto di lavoro indiscriminato negli anni. Tale distacco è rinforzato da una forte perdita di stima e credibilità dei leaders aziendali, che vengono quindi visti come padroni senza valore nè talento alla luce della loro declamata produttività. Se a questo aggiungiamo mentalità da boomer di stampo ottocentesco, la figura dell’azienda ne esce quindi irreparabilmente danneggiata, esponendosi così a ridicolizzazioni ed umiliazioni pubbliche (date un’occhiata al canale di Joshua Fluke).
L’azienda virtuosa, invece, è quella che, al passo coi tempi, offre versatilità e flessibilità delle condizioni di lavoro (in ufficio, da casa, ibrido), conta i risultati a medio e lungo termine (con obiettivi chiari e realizzabili) anziché remunerare le ore “passate davanti allo schermo”, offrendo benefici e avanzamenti agli impiegati più virtuosi.
I tempi sono cambiati, come le attitudini dei lavoratori, indipendentemente dalla fine della pandemia. E’ così…oppure fattelo da solo.
Fonti consultate:
1. Angelici M, Profeta P. Smart-working: Work flexibility without constraints. 2020.
2. Bris A, Zargari M. Bullshit Job? A Global Study on the Value of CEOs. A Global Study on the Value of CEOs (March 16, 2021). 2021.
3. Elhefnawy N. Contextualizing the Great Resignation (A Follow-Up to ‘Are Attitudes to Work Changing? A Note’). 2022.
4. Richards H. Bullshit Jobs. Journal of Critical Realism [Internet]. 2022.
5. Joakim Sandberg AA. CEO Pay and the Argument from Peer Comparison – ProQuest. 2022.
6. Lancet. The plight of essential workers during the COVID-19 pandemic – The Lancet. 2022.
7. Avitzur O. The Great Resignation: The Workforce Exodus Hits Neurology: Neurology Today. Neurology Today. 2022.
8. Perretti F. Saper ascoltare il silenzio: cosa ci dice la great resignation. Economia & management: la rivista della Scuola di Direzione Aziendale dell’Università L Bocconi, ISSN-e 1120-5032, Nr 1, 2022, págs 3-6. 2022.
9. Tosi HL, Werner S, Katz JP, Gomez-Mejia LR. How much does performance matter? A meta-analysis of CEO pay studies. Journal of Management. 2000;26(2):301-39.
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