“Tradire il grande fratello”, una pietra alla volta

Tradire il Grande Fratello di Leta Hong Fincher è stato pubblicato da Add editore non a caso l’8 marzo 2024. Il libro, infatti, gira attorno all’arresto delle “cinque femministe”, avvenuto il 6 marzo di nove anni prima in Cina, ufficialmente con l’accusa di aver creato disordine dopo aver distribuito materiale contro le molestie sessuali sui mezzi pubblici. Ma Li Maizi, Zhen Churan, Wei Tingting, Wu Rongrong e Wang Man erano nel mirino del governo probabilmente già da tempo.

Queste infatti nel 2012 sfilarono per le vie di Pechino indossando abiti da sposa imbrattati di sangue per denunciare la mancanza di leggi contro la violenza domestica (la prima è stata emanata solo nel 2016 e tutt’oggi non sembra applicata a dovere); protestarono contro il numero insufficiente di bagni pubblici per le donne, invitando queste ultime a usare quelli degli uomini; manifestarono contro la visita ginecologica obbligatoria per le aspiranti lavoratrici nel pubblico impiego e contro le discriminazioni alle ammissioni universitarie (dato che è spesso richiesto un punteggio più alto per le candidate donne). Quest’ultima penalizzazione fu giustificata dicendo che era necessaria ‘per proteggere l’interesse nazionale’. Ma perché uno Stato dovrebbe temere tanto queste giovani femministe? E di che interesse nazionale stiamo parlando?

Si direbbe che la società cinese sia nata patriarcale, basti pensare che il carattere che indica “donna” è la stilizzazione di una persona inginocchiata, con le braccia raccolte nelle maniche (女), e che quello che significa “bene” è costituito dai caratteri “donna” e “bambino” (子), come a voler indicare che diventare madre è il bene assoluto. Circa duecento anni fa – in questa società che le costringeva a fasciarsi i piedi, a contrarre matrimoni oppressivi e le privava del diritto di accedere all’istruzione e alla scrittura – alcune donne cinesi si dovettero ingegnare creativamente per sopravvivere, e collaudarono una forma di comunicazione segreta, il Nüshu, attraverso la quale si esprimevano, si confidavano e si davano sostegno in nome della sorellanza. 

Ma se con Mao le cose cambiarono, tanto che negli anni Cinquanta il governo esaltava pubblicamente l’uguaglianza fra i sessi – vantando la forza lavoro femminile più grande al mondo, col tempo la società iniziò a spingere le donne a sposarsi, così da arginare il problema degli uomini in eccesso (bare branches, 113 nati maschi ogni 100 femmine nel 2015), dovuti allo squilibrio causato dalla politica del figlio unico che causò quasi 12 milioni di donne “mancanti”, in quanto mai nate. Quelle che sono state così fortunate da nascere e da non suicidarsi (dato che negli anni ‘90 la Cina aveva uno dei tasso di suicidi femminili più alti al mondo) hanno dovuto sobbarcarsi anche i doveri non scritti (e mai voluti) di avere figli, così da placare anche l’invecchiamento della popolazione e la contrazione della forza lavoro; di studiare, ma esclusivamente per poter costruire una forza lavoro qualificata per il futuro della madrepatria; e di prendersi cura degli anziani, per sopperire alle mancanze dello Stato sociale. E non dimentichiamo che tutta questa pressione sociale arriva dopo anni di abusi forzati su vasta scala, sterilizzazioni e obbligo alla contraccezione (ben documentati nel documentario One Child Nation), ma ora il governo si offre di far togliere i contraccettivi intrauterini installati in modo forzato a milioni di donne tra gli anni Ottanta e i Duemila. E chi sceglie di non sposarsi e non avere figli, raggiunti i 30 anni verrà additata come “donna scarto”, per perpetuare lo stigma sociale. Ed ecco come oggi le donne in Cina sono viste come meri sistemi riproduttivi alla The Handmaid’s Tale

È in questo contesto che le cinque femministe furono rinchiuse per 37 giorni, durante i quali vennero maltrattate, furono lasciate dormire per terra e private di cure mediche e degli occhiali da vista. Ma grazie al frastuono globale che il loro arresto generò, alla fine queste cinque ragazze vennero rilasciate e rese così il simbolo di un nuovo, potente movimento di dissenso che trasversalmente sta legando più proteste, dando voce anche ad altre categorie di oppressi, come ad esempio gli operai. “Certi attivisti per i diritti dei lavoratori stanno maturando la consapevolezza che non può esserci giustizia economica senza giustizia di genere”, spiega l’autrice.  

Nella prefazione all’edizione italiana Fincher, oltre ad aggiornarci sugli eventi successivi la prima pubblicazione del libro nel 2018, ci rassicura sullo stato di salute del movimento femminista cinese, soprattutto grazie alla sua grande organizzazione e alla continua formazione di nuove reclute che possano sostituire le precedenti nel caso venissero arrestate o esiliate. E grazie alla creatività il movimento #MeToo riuscì a prendere piede anche in Cina: lo stratagemma di aver accostato due emoji, una con il riso (che in cinese si pronuncia mi) e una con un coniglio (tu), gli permise di dribblare la censura capillare del Grande Firewall e di diventare il simbolo della lotta contro il sessismo endemico.

Questo movimento – visto da un Paese dove sta per essere approvato il Decreto Sicurezza che prevede l’introduzione di una serie di nuovi reati che vogliono colpire le manifestazioni di dissenso – non può che essere guardato con ammirazione. E le storie contenute in questo libro sono, a mio avviso, da conoscere e farne tesoro, per ricordarci sempre che tenacemente, una pietra alla volta, si può perfino riempire il mare, imparando dalla storia dell’uccello Jingwei, che con perseveranza porta avanti il suo lavoro anche quando questo appare impossibile.

La femminista Ye Haiyan nel 2013 diede vita a una grande protesta contro un preside che stuprò sei bambini, iniziando a sostare davanti alla scuola col cartello “Preside, prenditi una stanza con me. Lascia stare i bambini”. Qui l’artista Ai Weiwei nell’atto di supportare questa protesta, mostra la scritta sul pancione “Preside, prenditi una stanza con me”.

Nell’ultimo capitolo conservato di ‘Pietre dell’uccello Jingwei’, Qiu Jin descrive un gruppo di giovani che fuggono da infelici matrimoni combinati vendendo la dote (come lei stessa aveva fatto quando era scappata dalla Cina). Imbarcate su una nave per il Giappone, le donne si tengono per mano e guardano la patria lontana:

Che grandi ambizioni dovevano avere quelle ragazze per rompere simili barriere! Erano andate a mille li [un ‘li’ è circa mezzo chilometro] da casa e ora viaggiavano per diecimila li alla velocità del vento. A bordo tutti le guardavano e pensavano: ‘La nuova cultura prospererà di certo. Un giorno queste ragazze agiranno da campane della libertà e salveranno la madrepatria’.

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