“Tutta la polvere del mondo in faccia” (Terre di Mezzo editore, 2024)

Intervista all’autrice, Paola Tellaroli

Tutta la polvere del mondo in faccia è un libro potente e delicato, capace di tenerti incollato alla pagina e rovistarti dentro. Paola Tellaroli, autrice e vincitrice del Premio “Pieve Saverio Tutino 2023”, ci consegna il diario di un’esperienza unica, quella della malattia. Un ictus giovanile la colpisce furioso ad appena trent’anni, Tutta la polvere del mondo in faccia è il racconto del viaggio nella e dalla malattia, il personalissimo Purgatorio di Paola, ma anche l’esistenziale percorso che tutti noi intraprendiamo ogni qualvolta sentiamo bussare alla nostra porta eventi incommensurabili e più grandi di noi. Ho la fortuna di aver conosciuto personalmente Paola, di aver letto – letteralmente divorato – il suo bellissimo libro e adesso allacciate le cinture perché ne parliamo insieme!


D. Ciao! Intanto – domanda iper-inflazionata, ma non banale se posta realmente – come stai?

R. Ciao e grazie per le tue belle parole.

Sto… in partenza verso oriente, quindi non mi posso proprio lamentare! E in generale sto meglio da quando sono finiti gli anni ad alto rischio di recidiva, gli anni di apnea, durante i quali ho ricostruito da capo la mia vita e – soprattutto – dopo aver finito questo diario che è riuscito a farmi ritrovare qualcosa di simile alla serenità. Avevo tanto sentito parlare della potenza terapeutica della scrittura ma non l’avevo mai sperimentata in prima persona e, fortunatamente per me, buttare fuori tutto il male subito, rimettere ordine in quanto mi è successo e tentare di archiviarlo ha funzionato. Mi ha permesso di voltare pagina una volta per tutte. Ma starò sicuramente meglio ancora quando sarà archiviata anche la battaglia legale perché chi non prese sul serio il mio caso, si prenda adesso le sue responsabilità.

D. Il tuo libro è un viaggio – riutilizzo, tra l’altro, la parola che hai scelto per Riflessi di zirmazine – in un’esperienza unica, vorresti raccontare a chi non lo ha letto ancora a grandi linee di che parliamo?

R. È la storia di una frenetica ragazza di trent’anni anni che si ritrova di punto in bianco intrappolata dentro a un corpo che non reagisce più a nessun stimolo e che non viene presa sul serio da chi l’avrebbe dovuta salvare. Da qui inizia il suo viaggio lungo cinque anni giù per un particolare girone dell’inferno in salsa italiana, che la porterà inevitabilmente a essere un’altra persona. È un diario autobiografico che parla di amicizia, di ingiustizie, di profondo dolore ma anche di rinascita.

Diciamo che, se di un viaggio si tratta, il mio assomiglia più a quelli di Francis Galton, che a quelli intrapresi dagli odierni ‘viaggiatori dell’inerzia’, come li ho chiamati nel mio #Riflessi. Ovvero, è stato un viaggio scomodo, certamente al di fuori della mia “comfort zone” e pieno di imprevisti, di scelte da compiere e di cambi di rotta. E siccome mi sarebbe piaciuto avere qualcosa di simile a una guida che mi dicesse dov’era meglio non attraccare, ho pensato che potesse essere utile tramandare la mia esperienza per chi ci passerà in futuro, per evitare inutili sprechi energetici a chi di energie ne ha già poche.

D. Nella prima parte del romanzo (lo chiamo così) gli amici sono descritti come un bene essenziale. L’amicizia ci aiuta a sopportare le cose dure del mondo, anche e soprattutto quelle che ci toccano personalmente. Gli amici fanno quello che fanno i delfini…

R. Già. I delfini. Ho trovato commovente la storia di questi animali che, quando sono in lutto, non abbandonano il cadavere del proprio caro ma cercano continuamente di risvegliarlo. Come i delfini, anche i miei amici non mi hanno abbandonata e anzi, in loro ho trovato la motivazione per rimettermi in sesto. Ognuno a modo suo mi ha dato una spinta per rialzarmi e non gliene sarò mai grata abbastanza. Sono stati veramente sorprendenti. Con questo non voglio dire che è grazie a loro se sono in vita oggi, per questo servono la medicina e una buona dose di fortuna; dico solo che senza la loro presenza mi sarei sicuramente abbattuta vedendo quanta strada avrei dovuto fare. Perché sono gli affetti a fare la differenza quando ci si trova in situazioni del genere e per una come me, cresciuta sentendomi ripetere che solo la famiglia resta quando la vita picchia duro veramente e che sugli amici non c’è da fare troppo affidamento, questa è stata la prova mastodontica del contrario. Scegliendo bene, non va per forza così. E se la famiglia è dove ci si sente a casa, loro sono sicuramente la mia famiglia, fatta di persone con le quali ci siamo scelte. Credo tra l’altro che questo diario sia terapeutico anche per le persone che mi vogliono bene, visto che in alcuni momenti particolarmente bui ho avuto la certezza che non capissero cosa stavo attraversando.

D.Un’altra cosa che mi ha colpito – anche perché il libro è scritto in una lingua bellissima – è stato il viaggio (l’Odissea, meglio) di recuperare la lingua che si possedeva, il modo di parlare, lo stile; ma anche più semplicemente la capacità di scrivere. È un ritorno all’infanzia, ma forse anche a uno stato primigenio dell’uomo. Di nuovo un viaggio vertiginoso, no?

R. Un viaggio che dura una vita e che non auguro a nessuno, oserei aggiungere, dato che è a dir poco destabilizzante svegliarsi un giorno e riscoprirsi non più in grado di comunicare né verbalmente, né in forma scritta. E poi, una volta mossi i primi muscoli, è iniziata la fatica immane: c’è stata la battaglia contro la maledetta afasia, le parole sfuggenti, il tic fastidioso che mi fa tuttora dire l’opposto di quello che avrei voluto, i termini criptici e quelli troppo simili (l’altro giorno al ristorante ho ordinato una pasta al pesto di pidocchi, per dire), le imprecazioni contro i verbi irregolari che mi confondono ancora, la ricerca di un accento il più simile possibile al mio, le consonanti che devo ancora capire bene come pronunciare e che quando posso evito, le paranoie di sembrare sbronza solo perché con la stanchezza mi parte lo sbiascichio, per non parlare dell’imbarazzo di chi aspirava a diventare come Tiziano Terzani e si ritrova invece a fare i conti con Luca Giurato!

D. Paola Tellaroli lungo il racconto, soprattutto nella prima parte del romanzo, tratta la malattia con profonda ironia. Ironia che non è solo distacco, ma la dote di ridimensionare le cose, di trovare leggerezza nell’abisso. Lo hai imparato o l’avevi innata questa capacità?

R. Visto che quando scrivevo guide turistiche mi sono sentita chiedere se per caso collaborassi con il Vernacoliere, credo di poterti dire che l’ironia ha sempre fatto parte di me, soprattutto quando scrivo, immagino per non prendermi troppo sul serio. In questo caso però dovevo riuscire a parlare di me e di una storia profondamente triste, perciò credo di averne fatto abbondante uso per non rischiare di scivolare nel drammatico, o nel patetico.

“Mentre precipitavo nell’abisso non ero più io, non ero di certo più la ragazza che inventò i sì alla vita, non ero più nemmeno convinta che la felicità fosse un muscolo volontario da quando avevo conosciuto il parassita della depressione. Guardavo dalla mia scrivania le foglie germogliare senza porsi tante domande, senza nessuna ambizione, e le invidiavo. Se moriremo tutti, allora perché scomodarsi tanto? Un lavoro qualunque, un uomo qualunque, degli amici qualsiasi alla fine che differenza avrebbero fatto? Questo ragionamento mi riportò però a una situazione che risaliva alle scuole elementari. Fu durante un’esercitazione di matematica, una delle prime, avevamo appena imparato l’addizione, mi ricordo che restai bloccata su un’operazione del tipo “1+2”, perché la mia mente di bambina si chiese: “Quanto vale 2? Tutti i numeri non valgono 1?”. Ma c’era qualcosa che non mi convinceva in quel ragionamento e difatti poi conclusi che non era possibile, perché non avrebbe avuto alcun senso aver inventato dieci numeri diversi se poi corrispondevano tutti allo stesso valore. Ecco che avevo risolto il mio personale dubbio bambinesco. Allo stesso modo mi dissi che no, non sarebbe stata uguale la mia vita, anzi. Che anche se tutti moriremo un giorno, la differenza la farà quanto saremo soddisfatti di tutto ciò che saremo riusciti a combinare nel frattempo e dal numero di persone che ci ricorderà, tenendoci in vita ancora un po’. Per recuperare l’equilibrio serve un punto di riferimento, che io riuscii, infine, a trovare. Sono stati l’amore spropositato di Ema e la curiosità, credo, a trattenermi. La curiosità di vedere accadere ancora qualcosa di assurdo e di bellissimo, di inaspettato.”

D. Ho voluto citare un lungo brano del libro perché ovviamente il dolore ha un ruolo centrale in questo racconto. Non è solo il dolore fisico (che è ovviamente presente), ma anche quello spirituale. Paradossalmente la malattia era affrontabile, ma le conseguenze di essa, le amnesie degli amici e delle persone care, il non ricevere la giusta considerazione; tutto ciò risulta produrre più dolore della malattia. Il Sistema Sanitario Nazionale non esce come un personaggio positivo in questa storia. Anche qui mi pare il caso di iniziare da una citazione.

“Sono convinta che non sia la malattia in sé a distruggere
la salute mentale dei pazienti, ma il sistema. Mi sembrava
terribile vedere esseri simili a me e che con me popolano
questa pallina insulsa che fluttua nell’universo farmi la
guerra, invece di tendermi la mano.”

R. Sì, perché quando hai una malattia cronica non hai alternative alla sopportazione, ma il sistema disfunzionale col quale mi sono trovata a lottare e che sembrava fare di tutto per ostacolarmi non è sfiga, ma è frutto della scelta precisa di qualcuno. L’assenza di una figura professionale nel sistema sanitario che ti segua quando sei confuso o quando non capisci il medichese, la mancanza di una rete di salvataggio per chi dopo una malattia del genere cade in depressione, le dimenticanze assurde dei medici e la loro comunicazione schizofrenica, la categoria protetta inarrivabile ma necessaria per uscire dal precariato, le fisioschiappe & co., il dover fare causa al pronto soccorso perché secondo loro ‘tanto meglio non sarei mai stata’ dopo che erano trascorse nove ore fra l’insorgere dell’emiparesi e l’intervento, le esenzioni che peggiorano il tuo status, i medici che non ti credono e quelli che ti trattano come un paría, quelli che ne approfittano e quelli che non vogliono farti la fattura sono solo alcuni degli esempi che fanno sì che rimettersi in piedi richieda molte forze e incazzature non necessarie. Soprattutto in casi come il mio, visto il noto impatto di un intervento sanitario tardivo nell’ictus.

Ma quel che è peggio è che ti fa percepire come non più benvenuto. E quando ti senti la persona più stanca del mondo e vedi che nel tuo Paese non c’è più posto per te, lì sei veramente perduto e quello spintone verso il burrone è l’ultima cosa di cui hanno bisogno le persone fragili.

D. Ultima citazione, prometto. Riguarda il tempo. Esso si declina in numerose forme nel libro: il tempo fulmineo e sospeso dell’ictus, il tempo dilatato che si vive nella fase di riabilitazione, il tempo e la pazienza necessari ad imparare nuovamente a fare, il tempo da recuperare…  Che valore ha per te e in questa storia il tempo?

“Scoprii anche che,
a ogni ora dall’occlusione di una vena cerebrale, si perdono
definitivamente in media centoventi milioni di neuroni,
ottocentotrenta miliardi di sinapsi e settecentoquattordici
chilometri di fibre mielinizzate, che sono quelle
che permettono il buon funzionamento delle cellule nervose.
In pratica, comparandolo al normale tasso di neuroni
che si perdono con l’invecchiamento cerebrale, un
ictus ischemico senza alcun trattamento è paragonabile
a perdere 3,6 anni allo scoccare di ogni ora: ecco quindi
perché prima ero una Duracell mentre adesso non duro
più di un cerino. Biologicamente avevo perso in una sola
notte trent’anni di vita.”

R. Il tempo per me è sempre stato il bene più prezioso, alla fine è l’unico sicuramente non rinnovabile. Perciò ho sempre cercato di sprecarne il meno possibile, sono sempre stata la regina dell’impazienza alla quale è toccato, come per via di una subdola legge del contrappasso, una malattia della pazienza. Che richiede un cambio di vita radicale. Ma la tua vita, che tu lo voglia o no, cambia quando hai una malattia cronica in un Paese come l’Italia: tutto il tempo viene prosciugato dalla gestione della malattia e non ne hai più per fare ciò che un tempo ti faceva amare la vita. Ti ritrovi a dover dormire molto più di prima (se ci riesci, che con un dolore neuropatico non è semplice), a dover fare quasi quotidianamente dribbling tra gli specialisti e a passare tutte le pause a telefono per cercare di prenotare le visite (nel mio caso si tratta di fisiatri, psicologi, fisioterapisti, neurologi, iniezioni di botulino e questo solo per l’ictus, poi si devono aggiungere i controlli per altre malattie) e, in tutto ciò, devi lavorare come se tu stessi bene, come se tu non avessi nessuna preoccupazione e anzi, devi fermarti anche di più per recuperare. Non è più vita, è una vita al rallentatore che assomiglia alla sopravvivenza.

D. Siamo giunti alla fine della nostra chiacchierata e volevo parlare di una citazione del tuo libro che mi sta molto a cuore, perché è capitato proprio che ne condividessi le radici: il film feticcio “Santa Maradona”, film che anche io ho rivisto innumerevoli volte e in cui mi sono immedesimato in svariati modi. Che significa questo film in questa storia che narri?

R. È semplicemente il mio film preferito, anzi mi piace chiamarlo ‘film antidoto’ perché riesce sempre a farmi ridere, nonostante ormai potrei recitarlo a memoria. A lui devo tante battute, qualche insegnamento di vita, la notte più surreale di sempre e la bella città dove mi trovo a vivere ora. Ed essendo la storia di due amici in crisi che alla fine decidono di aggiustare le cose della loro vita che hanno inevitabilmente complicato, questo è – volendo vedere – un po’ il messaggio anche del mio diario: per quanto complicato possa sembrare, nella vita tutto si aggiusta. Tutto andrà meglio e tornerà a valerne la pena, bisogna solo darle tempo, promesso.

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