Per molti decenni, pesticidi e fertilizzanti sono stati considerati l’unica soluzione rapida ed efficace a tutti i problemi dell’agricoltura e dell’allevamento. La posizione rivoluzionaria di cui si fa ambasciatrice Rachel Carson, con la pubblicazione di Silent Spring, supportata da una vasta e dettagliata documentazione, provocò una feroce campagna diffamatoria contro la scienziata da parte delle aziende produttrici di questi prodotti. Tuttavia, il suo lavoro, caratterizzato da un rigoroso rispetto della verità e da un grande coraggio intellettuale, prevalse sui detrattori; dopo la pubblicazione del libro, infatti, gli Stati Uniti vietarono l’uso del DDT e introdussero le prime leggi per la protezione dell’ambiente.
Quella che segue è la breve favoletta con cui Rachel Carson apre Primavera silenziosa (Silent Spring). Questa scelta della scienziata americana lasciò di sasso molti colleghi, sconcertati dal fatto che l’autrice avesse deciso di dare inizio ad un volume scientifico sui danni dei pesticidi con una favola allegorica sull’inquinamento dell’ambiente.
Nonostante le feroci critiche, tra le quali anche quelle di chi ne criticava l’approssimazione – palesemente perdendo di vista la sua funzione allegorica -, in moltissimi lodarono l’espediente retorico e la creatività con cui Carson aveva introdotto un argomento tanto inquietante come l’avvelenamento del pianeta.
Buona lettura!
[il titolo del brano è liberamente tratto dal testo].
C’era una volta, nel cuore dell’America, una città dove tutte le forme di vita sembravano essere in armonia con il loro ambiente. La città si trovava in mezzo a una scacchiera di prospere fattorie, con campi di grano e colline coltivate a frutteti dove, in primavera, bianche nuvole di fiori erano sospese sui campi verdi. In autunno, querce, aceri e betulle appiccavano un incendio di colore che divampava scintillando su uno sfondo di pini. Le volpi latravano allora sulle colline e i cervi attraversavano i campi, silenziosi e seminascosti nella foschia del mattino.
Lungo le strade, allori, viburni e ontani, grandi felci e fiori di campo rallegravano lo sguardo del viaggiatore per gran parte dell’anno. Anche in inverno il ciglio delle strade era un luogo visitato dalla bellezza, dove innumerevoli uccelli venivano a nutrirsi con le bacche e le infruttescenze delle erbe secche che spuntavano da sotto la neve. Quella campagna era infatti famosa per l’abbondanza e la varietà degli uccelli, e quando – in primavera e in autunno – vi si riversava la marea di migratori, c’era gente che veniva da molto lontano per osservarli. Altri arrivavano per pescare nei torrenti che scaturivano limpidi e freddi dalle colline, e nelle cui pozze le trote deponevano le uova. Era stato così fin da quando, molti anni addietro, i primi coloni avevano eretto case, scavato pozzi e costruito granai.
Poi però nell’area si insinuò uno strano flagello e tutto cominciò a cambiare. Sulla comunità discese una sorta di incantesimo malefico: malattie misteriose travolgevano interi pollai; bovini e ovini si ammalavano e morivano. Ovunque c’era un’ombra di morte. I contadini parlavano dei molti mali che affliggevano le loro famiglie. In città, i medici erano sempre più sconcertati dai nuovi tipi di malattia comparsi tra i loro pazienti. C’erano state diverse morti improvvise e inspiegabili, non solo tra gli adulti ma anche tra i bambini che, colpiti all’improvviso mentre giocavano, morivano nell’arco di qualche ora.
Incombeva uno strano silenzio. Gli uccelli, per esempio: dov’erano andati? Molte persone ne parlavano, sconcertate e inquiete. Nei giardini, le mangiatoie erano deserte. I pochi che si vedevano erano moribondi; tremavano violentemente e non riuscivano a volare. Era una primavera senza voci. Le mattine – un tempo all’alba vibranti per i cori di pettirossi, uccelli mimi, colombe, ghiandaie, scriccioli e decine di altre voci d’uccelli – adesso erano prive di suoni: su campi, boschi e paludi c’era soltanto silenzio.
Nelle fattorie le galline covavano, ma nessun pulcino arrivava alla schiusa. I fattori si lamentavano di non riuscire ad allevare i maiali: le figliate erano poco numerose, e i neonati sopravvivevano solo qualche giorno. I meli arrivavano alla fioritura, ma le api non ronzavano più tra i fiori: non c’era impollinazione né vi sarebbero stati frutti.
Il ciglio delle strade, un tempo tanto bello, adesso era bordato di vegetazione rinsecchita e appassita come fosse stata investita dal fuoco. Anche questi luoghi erano silenziosi, abbandonati da tutte le creature viventi. Perfino i corsi d’acqua erano privi di vita. I pescatori non ci andavano più, giacché tutti i pesci erano morti.
Nelle grondaie sotto i tetti, come pure tra le tegole, era ancora visibile qualche chiazza lasciata da una polvere bianca granulosa caduta qualche settimana prima come neve sui tetti e sui prati, nei campi e nei corsi d’acqua.
In quel mondo così colpito, a soffocare la rinascita di nuova vita non era stata nessuna stregoneria, nessuna azione nemica: lo aveva fatto la sua stessa gente.
Questa città non esiste davvero, ma potrebbe senz’altro avere un migliaio di corrispondenze in America o altrove nel mondo. Io non conosco alcuna comunità che abbia sperimentato tutte le sventure qui descritte. Ognuno di quei disastri è tuttavia effettivamente accaduto da qualche parte, e molte comunità reali ne hanno già subito un numero considerevole. Uno spettro cupo s’è insinuato in mezzo a noi passando quasi inosservato, e la tragedia qui immaginata potrebbe facilmente diventare una terribile realtà con cui tutti dovremo confrontarci.
Che cosa ha messo a tacere le voci della primavera in tante città americane?
(1962)