Quando noi occidentali pensiamo al Giappone, in modo del tutto naturale vi facciamo riferimento come Estremo Oriente ovvero come l’Oriente più remoto dal continente europeo. Questa locuzione, però, certamente non coincide con l’idea che gli abitanti di quella zona del mondo hanno di sé, ma racchiude piuttosto il concetto che l’Europa ha costruito su se stessa e sul diverso ed esterno da sé.
Pertanto, per un europeo – per un occidentale, in genere – comprendere appieno la letteratura giapponese, in modo particolare quella del passato – quella moderna e contemporanea, essendosi nutrita e ispirata all’Occidente, è di fatto molto più accessibile – comporta grandi difficoltà.
La letteratura giapponese – così come quella di tutti i popoli del mondo – è la summa del gusto e dell’ambiente che l’ha generata. Sono numerosi i fattori che la rendono un universo particolare ed estraneo, almeno in parte, al nostro. Ad esempio, pare che uno dei fattori più influenti nella cultura nipponica sia quello geografico, con particolare riferimento alla natura insulare del territorio: caratteristica che ha contribuito – causa le difficoltà di comunicazione – a plasmare di fatto un sorta di esclusivismo geografico. Molti studiosi di cultura e storia della letteratura giapponese occidentali sono concordi nell’affermare che per apprezzare e giudicare la loro letteratura bisognerebbe essere giapponesi. E che la cautela è strumento fondamentale nell’approccio al mondo dell’arte e della cultura nipponica.
Per quanto mi riguarda – nonostante la cautela non sia la mia migliore qualità – in questa occasione ho preferito abusarne. I testi che seguono appartengono a quel periodo definito periodo dell’influenza del pensiero occidentale sulla letteratura – dal 1868 a oggi – di fatto iniziato con l’apertura del Giappone al mondo esterno con la rivoluzione del 1868.
Non solo sono testi iper-contemporanei, ma uno di questi è un testo di un occidentale, grande viaggiatore e amatore del Giappone. Cominciamo da lui.
Cerchi infiniti, Cees Nooteboom
Cees Nooteboom è uno scrittore olandese. Ma la passione di Nooteboom per il Giappone è una passione datata che lo ha portato nel Paese del Sol Levante numerosissime volte.
Questo volume, edito da Iperborea, raccoglie i suoi molti scritti sul Giappone.
Cominciamo subito dalla migliore dote di questo libro: questo è uno di quei libri ricchissimi che non è solo un consiglio da leggere, ma che consiglia a sua volta:
Quando sono in Giappone mi ritrovo in una ragnatela di significati nascosti, ciò che non capisco si mescola con ciò che posso leggere. Il mio Giappone è un Giappone di libri. Due sono quelli che mi sono portato in questo viaggio per rileggerli, e anche questa è una mistificazione perché sono stati scritti quasi mille anni fa da signore aristocratiche della corte imperiale di Kyoto, che allora si chiamava ancora Heian. Uno è un diario, Note del guanciale di Sei Shōnagon, l’altro, La storia di Genji, scritto da Murasaki Shikibu, è il primo romanzo che sia mai stato scritto, un proustiano romanzo fiume pieno di intrighi e storie d’amore intorno alla figura di Genji, il principe splendente.
Durante i suoi viaggi Nooteboom visita le grandi città, ma si spinge anche in provincia: qui si imbatte in individui che non parlano bene l’inglese e che sembrano tenerlo a parte – gli si presenta davanti una società gentile, rispettosa, ma che sembra escluderlo dal mistero che incarna.
Cees Nooteboom come un irriducibile esploratore di culture intuisce quale atteggiamento tenere:
L’obiettivo segreto e inconsapevole di certi viaggi è quello di mandare in totale confusione il viaggiatore, estraniarlo a tal punto dalle sue origini da far apparire la sua esistenza come un’oscura faccenda cui potrà tornare solo con grande difficoltà. Soltanto allora sei stato veramente via, così altrove da essere forse diventato altro.
Cerchi infiniti raccoglie i suoi oltre quarant’anni di viaggi attraverso i paesaggi, le architetture, la poesia e la storia giapponesi – precisamente i saggi scritti dal 1972 al 2012. Dalle grandi città di Tokyo e Osaka a quelle antiche di Kyoto e Nara, passando per le immagini di Hokusai e Hiroshige e per il teatro kabuki, in quella atmosfera di coesistenza pacifica e intrecciata di buddhismo e shintoismo.
Giorgio Amitrano nella postfazione al libro ci fornisce una fondamentale chiave di lettura dei testi di Nooteboom:
Come molti degli autori che hanno scritto sul Giappone da una prospettiva non specialistica Cees Nooteboom oscilla costantemente tra un senso di appartenenza e uno di estraneità. Quando l’esperienza del Giappone di rinchiude nell’arco di un singolo viaggio ma si ripete più volte l’alternarsi di questi opposti stati d’animo si prolunga e accompagna uno scrittore nel tempo producendo una complessa serie di variazioni nel suo rapporto col paese.
Ogni giorno è un buon giorno, Noriko Morishita
Questo di cui sto per parlarvi non è esattamente il classico libro nelle mie corde. Perché è in questa lista? – vi chiederete, be’, ci sono due buoni motivi per leggere un libro:
1. arricchimento/approfondimento – spirituale, intellettuale, culturale, stilistico;
2. necessità emotiva.
Ogni giorno è un buon giorno di Noriko Morishita soddisfava, quando l’ho letto, entrambi i criteri appena enunciati: leggerlo provoca una sensazione di benessere psico-fisico non indifferente, ed, in più, ti fornisce una serie di informazioni dettagliate sulla cerimonia del tè da sfiorare – solo appena – l’ambito divulgativo.
Gli utensili per la cerimonia del tè erano un tripudio di raffinatezza e arguzia. In apparenza sapevano di anziano, ma avevano nomi spiritosi, o magari sembravano molto semplici, e invece erano assurdamente curati nei particolari, e nascondevano delle sorprese difficili da individuare, che ti lasciavano senza parole.
Il libro di Morishita è di fatto il racconto di una delle cerimonie più antiche del Giappone: la cerimonia del tè.
Si presenta come un percorso autobiografico che copre la vita dell’autrice dai vent’anni alla mezza età, e scandisce i suoi personali progressi nell’affinare l’antico rituale del tè.
Il tè, però, sfronda il superfluo, facendoti percepire con chiarezza la maturazione di cui da solo non ti renderesti conto. All’inizio non capisci minimamente cosa stai facendo. Poi, da un certo giorno, all’improvviso la tua visuale si amplia, venendo a coincidere con la vita.
La maestra Takeda, insieme alla cugina di Noriko, la indirizzano sulla via del tè, quando ancora studentessa, inizia a dubitare del suo percorso di vita.
La cerimonia del tè accompagnerà Noriko per tutta la vita, aiutandola a superare momenti difficili legati alla carriera e a un mancato matrimonio.
Nella stanza della maestra Takeda prende vita il centro propulsore della narrazione, da cui si irradiano le vicende della vita quotidiana di Morishita Noriko.
Tokio soundtrack, Furukawa Hideo
Tokyo Soundtrack di Furukawa Hideo è a tutti gli effetti un romanzo distopico con molte occasioni di riflessione, e non da poco.
Come ci suggerisce il titolo, la narrazione si svolge a Tokyo: i tre protagonisti della storia – Leni, Hitsujiko e Touta – vivranno la città in modi del tutto differenti. Di fatto tre stranieri in una città difficile.
Leni era nato nel Libano, o meglio nella zona di Tokyo che era così soprannominata. A luglio 2004, Leni aveva dieci anni. Aveva abbandonato la scuola. A stretto contatto con i bambini giapponesi, aveva imparato cos’erano l’odio e la rabbia.
Il romanzo di Furukawa è stato pubblicato in Giappone nel 2003, mentre la narrazione della Tokyo futuristica è ambientata tra il 2008 e il 2009: una scelta alquanto bizzarra per un’ambientazione futuristica, ma efficace e con l’intenzione di sottolineare senza remore l’imminenza della catastrofe. La Tokyo dipinta da Hideo – futura, ma non troppo – è un inferno tropicale, arroventato dal riscaldamento globale.
Tokyo era una membrana asfissiante. Dopo aver navigato per mille chilometri in direzione nord, Touta era passato da una zona subtropicale a una zona tropicale, sebbene artificiale, ovvero quella metropoli che si era trasformata in un’isola di calore e che ormai molti chiamavano ‘Heat Island’.
È in questa Tokyo problematica e arrabbiata che i tre ragazzi si aggirano esplorandone e scoprendone i misteri – ad esempio, la scoperta di una parallela città sotterranea, popolata da entità non bene identificate. Tokyo è oramai una città poco rassicurante, popolata da un’umanità sofferente a cui basta poco per darsi alla rivolta.
Nella prefazione all’edizione italiana, curata da Sellerio, lo scrittore Furukawa ci lascia una pista da seguire:
Quella ‘rabbia’ che scaturiva dall’irruzione improvvisa del mondo nel nuovo secolo. Da un momento all’altro, il ventesimo secolo era tramontato, finito. In quell’istante non si sono manifestate né salvezza, né distruzione, ma alcuni mesi più tardi… per l’esattezza un anno, nove mesi e undici giorni dopo, un’immane tragedia che ha avuto e continua ad avere conseguenze a livello globale si è abbattuta su un paese che non è l’Italia né il Giappone.
Tokyo Soundtrack ha molte qualità, ma quella che più mi ha colpito è la capacità di fondere l’atmosfera pre-apocalittica di un mondo avviato alla distruzione all’introspezione psicologica.
Giappone. The passenger, AA. VV.
La serie Per esploratori del mondo ideata dalla casa editrice Iperborea dal titolo The Passenger è ormai estremamente celebre. Ognuno di questi piccoli tesori del viaggiatore del mondo è curato in ogni minimo dettaglio: si parte dalle statistiche importanti sul Paese (tasso di disoccupazione, aspettativa di vita, debito pubblico e privato) e dai falsi miti, e passando per una raccolta di saggi e reportage di esponenti di spicco della società scelta o di studiosi della cultura in questione, si arriva ad una delle parti che preferisco: la rassegna su usi, costumi, musica e approfondimenti.
L’omotenashi («ospitalità»), è ricerca dell’armonia intuendo le esigenze dell’ospite. Sui bus è vietato telefonare, i malati portano maschere anticontagio, il tassista si assicura che il passeggero sia comodo, gli oggetti smarriti vanno sempre restituiti. Più lontano è il legame con una persona tanto più è doveroso essere cortesi. Tuttavia, ci sono casi in cui essere scortesi corrisponde a un’aspettativa sociale. Secondo la ferrea gerarchia è normale che il dirigente si imponga con forza sui dipendenti, che il cliente tratti con sufficienza una commessa e che un allenatore sia spietato con la propria squadra. Essere oggetto di scortesia è la massima sanzione di appartenenza al gruppo.
Il Giappone ha una dote: quella di suscitare sempre stupore nell’osservatore – quantomeno in quello occidentale. Restiamo di fatto meravigliati da ogni piccolo particolare della vita dell’arcipelago, persino nella sua moderna tendenza di emulazione dell’Occidente: dal monolitismo delle strutture sociali alla stravaganza dell’industria culturale, alla resilienza e resistenza delle sue tradizioni, per non parlare della varietà di subculture delle megalopoli.
Quel che è chiaro dal resoconto di Iperborea è che non si può conoscere un Paese basandosi su un’immagine distorta: i giapponesi non sono freddi – pare ci siano delle occasioni in cui piangere è doveroso; non sono nemmeno ordinati come si crede né sono sempre cortesi; anzi, pare che in certe circostanze la scortesia sia d’obbligo.
Una delle cose che certamente attira l’attenzione è il tasso di depressione del popolo giapponese: il suicido è la prima causa di morte negli uomini tra i venti e i 44 anni. Questo tipo di suicidio per troppo lavoro viene chiamato karōshi.
Tra gli undici approfondimenti letterari e reportage, si parla di tsunami con Richard Ljoyd Parry, corrispondente a Tokyo per il Times; la poetessa Sekiguchi Ryōko riflette invece sul ruolo delle donne, tra emancipazione e quiete domestica. Ian Buruma firma un pezzo dal titolo Perché il Giappone è immune al populismo, e la famosa scrittrice Banana Yoshimoto ci racconta il suo amore per il quartiere di Tokyo in cui ha abitato per anni, arricchendo la narrazione con una riflessione sui cambiamenti del Giappone contemporaneo.
Una vita tra i margini, Tatsumi Yoshihiro
Il fumetto di Tastumi Yoshihiro è un’autobiografia, ma non è solo l’autobiografia di chi l’ha scritto: è di fatto l’autobiografia di un genere di manga conosciuto come gekiga – fumetti dedicati ad un pubblico adulto.
Il racconto prende avvio nel 1948, quando l’autore ha 13 anni e lavora su singoli pannelli di manga e inizia ad inviarne delle copie alle riviste, e finisce nel 1960 quando l’autore ha 25 anni ed è autore di manga di successo, col nuovo stile gekiga da lui creato. Si raccontano molti dei particolari della vita familiare di Tatsumi (ribattezzato Katsumi Hiroshi nel libro); molti pertanto i personaggi a cui si fa riferimento: suo fratello malato, suo padre donnaiolo, sua madre devota.
Anche la storia culturale e politica del Giappone viene documentata, ma l’obiettivo principale dello scrittore è quello di documentare principalmente lo sviluppo dei manga nel dopoguerra e nel periodo succesivo.
Il dubbio su se stesso e la determinazione di Tatsumi costituiscono i due fili conduttori della narrazione, dove si alternano le scene di ambizione a diventare un artista capace e di successo e la sua ammirazione per gli artisti che ha incontrato, in particolare il superbo Tezuka Osamu.
La storia degli artisti manga è ben raccontata tra tradimenti, sballi, avventure, con i ragazzi poco più che ventenni danno libero sfogo a creatività ed originalità.
È una storia eccezionale che merita di essere annoverata come uno dei capolavori del genere. È quasi sicuramente il capolavoro di Tatsumi.
Fonti consultate
Orsi, Maria Teresa, and Marcello Muccioli. 2015. “La letteratura giapponese.” La letteratura giapponese: 1-518.